“Le cose più belle sono quelle che ti spariscono davanti agli occhi”. Pensate al sole che muore dietro una montagna, dopo un tramonto mozzafiato. Oppure ad una scultura di sabbia, che il vento o l’acqua del mare cancellano per sempre, senza lasciarne traccia.

Ora chiudete gli occhi. E provate a vedere un film. Magari con passo incerto, scoprirete comunque di poter raggiungere la luce.

 

È un film straordinario, Hikari (Vers la lumière) di Naomi Kawase, cineasta nipponica che, ancora una volta e meglio di chiunque altro, riesce a dare vita ad un’opera di purezza cristallina, unendo teoria (dell’immagine) e poesia (dell’umano, della natura).

La storia è quella di Misako (Ayame Misaki), di mestiere autrice dei testi per l’audiocommento di film per non vedenti. Un padre sparito chissà dove, una madre persa nel ricordo e nell’attesa di quell’uomo, Misako – durante i test screening con un gruppo selezionato di non vedenti – conosce Nakamori (Masatoshi Nagase), uomo che progressivamente sta perdendo la vista.

Un tempo fotografo, Nakamori continua ad immortalare quel poco che riesce ad inquadrare con la sua mitologica Rolleiflex e, al tempo stesso, incuriosisce la ragazza creando un confronto sulle sfumature di alcune parole, o alcuni silenzi, da utilizzare o meno per la stesura dell’audioguida del film su cui sta lavorando.

Ma è un incontro, quello tra i due, che poco a poco li aiuterà a vedere nuovamente le cose, soprattutto quelle dimenticate, o quelle avvolte dal buio di un bagliore accecante.

Forse tra i lavori più “accessibili” della Kawase – habitué del Festival di Cannes, dove ritrova il concorso dopo tre anni (e la scandalosa assenza dal Palmares per l’altrettanto bello Still the Water) – Vers la lumière (Radiance è il titolo anglofono) è un commovente, a tratti insicuro, incedere nei misteri dell’immagine.

 

Oltre all’immagine, d’altronde, quale altra cosa nei confronti del tempo può dirsi al tempo stesso così infinita e caduca?

Riflessione non nuova, forse, ma che attraverso lo sguardo inconfondibile di Naomi Kawase si fa via via meno teorica, meno intellettuale, per poggiarsi sul fruscio della materia, per nascondersi nell’angolo più remoto del (non) visibile, tornando lì dove tutto si imprime per poi fuggire via.

Dentro la sala di un cinema, dove anche chi non può vedere è invitato ad andare incontro alla luce: sentendo. Con gli occhi chiusi, con il cuore.