La vita sono le scelte che facciamo, o giù di lì. La citazione in esergo, senza autore, dunque autoprodotta e egoriferita, illumina il tredicesimo lungometraggio di Gabriele Muccino, classe 1967, già enfant prodige, già eroe dei due mondi (gli Usa con Will Smith et alii, e prima e dopo il Tevere e i suoi derivati), già serialmente accasato (A casa tutti bene, 1 e 2), già compiuto ma forse incompleto.

Domiciliato nella sezione Grand Public alla 19. Festa del Cinema di Roma, dal 31 ottobre in sala, Fino alla fine non è, nomen omen, un nuovo inizio, ma forse un compendio di tutto quello che Muccino senior è stato: girava e, meno, gira bene; capiva e, assai meno, capisce i giovani d’oggi (di ieri). Vale a dire, Gabriele oggi è meglio in formato famiglia e multi-generazionale, che gggiovane, segnatamente, tra branco e banda.

Prodotto da Lotus Production, una società Leone Film Group con Rai Cinema, in associazione con Adler e con Ela Film, e distribuito da 01 Distribution, il film si vuole “una storia d’amore che diventa un thriller adrenalinico”, ma non lo è, se non per cattiva approssimazione: Fino alla fine è il racconto di una duplice minaccia, prima lo stupro di gruppo e poi la morte violenta o la reclusione, con due configurazioni – il branco e la banda armata, appunto – e due (sotto)generi con licenza di ibridazione, il dramma balnear-sentimentale con spauracchio di violenza carnale, l’heist movie con – je piacerebbe – ammicchi da Bonnie e Clyde. Con – Muccino scrive insieme a Paolo Costella - il debito condimento di coming-to-age, e per main course la cittadinanza americana della protagonista, acciocché il pubblico rammenti le gesta stelle & strisce del regista. Va be’.

La sinossi gliela accolliamo: “La protagonista di Fino alla fine, Sophie, ventenne, americana, di passaggio a Palermo con la sorella, incarna una forza vitale indomabile che, dopo aver vissuto a lungo in uno stato di prigione emotiva, sceglie, incontrando un gruppo di giovani siciliani, di uscire dal proprio bozzolo e tuffarsi nella vita sfidando sé stessa e il mondo". A parte gli inciampi sintattici (però la triplice vitale-vissuto-vita non è male), ecco Sophie, interpretata dalla per noi Carneade ma splendidamente addominata Elena Kampouris, che fresca orfana di padre fa il Grand Tour con la sorella bacchettona, ultima tappa Palermo: sulla spiaggia incontra Giulio (Saul Nanni), se ne invaghisce tra un tuffo e una grotta, e viene traghettata per gli amici, ove se la comanda senza alterigia l’eponimo Comandante (Lorenzo Richelmy, che è meglio di Nanni), in un’avventura notturna tra discoteca e rapina. Che è sopra tutto di verosimiglianza: se la stasi provvede costantemente dialoghi risibili o scellerati, il colmo si ha nell’esibizione notturna “a quattro mani” di Sophie e Giulio al pianoforte di un centro commerciale – e non tanto per come suonino, ma per quel che si dicano.

La mafia non è locale, probabilmente per non turbare la Sicilia Film Commission, e l’epilogo – tutto si svolge in 24 ore, tranquilli – dovrebbe interrogare via Google l’estradizione, per concretare quel Fino alla fine. Morale: se, almeno a queste altitudini anagrafiche, Muccino si limitasse a dirigere, senza scrivere, sarebbe meglio.