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Joel Kerry, Rebecca Antonaci e Willem Dafoe in Finalmente l'alba. Cr. 01 Distribution
Nella filmografia di Alida Valli, la diva italiana (anzi, polese; ma questa è un’altra storia) che da Cinecittà arrivò a Hollywood e da lì tornò perché insofferente alle imposizioni di David Selznick, c’è un film nascosto, girato intorno al 1952: si intitola Sacrificio, un dramma bellico che la vede tragica protagonista nella Roma occupata dai tedeschi e prossima alla liberazione. Al suo fianco c’è Sean Lockwood, star americana nel ruolo di un soldato che, nel finale, salva la vita a una bambina, simbolo della speranza di un mondo migliore.
Se non ne avete mai sentito parlare, niente paura: questo film non esiste. Esiste – è esistita – solo Alida Valli, che nel 1953 avrebbe potuto tranquillamente interpretare un film del genere (La mano dello straniero di Mario Soldati, per esempio; anche se, esaurita la stagione neorealista, non è che la guerra fosse tema centrale del cinema italiano). Film e attore, invece, sono invenzioni di Saverio Costanzo, l’autore di Finalmente l’alba (in Concorso a Venezia 80), kolossal (budget importante, vicino ai 30 milioni di euro) che si apre proprio con la proiezione di Sacrificio. Incipit che, a suo modo, annuncia il desiderio ucronico di un film che si svolge nell’arco di una trentina di ore, tra il pomeriggio della proiezione e l’alba del finale (annunciata dal titolo), e si colloca in un momento preciso: i giorni immediatamente successivi all’11 aprile 1953, quando sulla spiaggia di Capocotta fu ritrovato il cadavere di Wilma Montesi, una ragazza che aveva partecipato a qualche film come comparsa o figurazione speciale. Morte misteriosa, tra i più celebri cold case della storia italiana e primo evento a squarciare il sentimento di rinascita del dopoguerra: la vittima era una ragazza come tante, proveniente da famiglia umile e modesta, sognatrice ritrovatasi in un incubo, emblema di un popolo suggestionato dalla magia del cinematografo (i film ma anche la pubblicistica) e che finisce nelle grinfie di un’alta società corrotta e perversa.
Il caso Montesi è un crocevia del dopoguerra: non fu solo uno scandalo “perfetto” (una villa lussuosa, un gruppo di vip, droga a fiumi, sesso selvaggio: che cosa c’è di più torbido?) ma venne usato anche per far fuori un politico, il rampante democristiano Attilio Piccioni, poiché padre di Piero, jazzista (e futuro compositore per Alberto Sordi) che a un certo punto fu accusato di omicidio colposo e che allora era il compagno di Alida Valli.
Eccoci qua: Alida Valli – non a caso “ripensata” da Alba Rohwracher, feticcio del regista – che, in quel momento, era l’attrice italiana più internazionale e autorevole, e qui diventa vestale dell’ucronia, sia sul grande schermo (con un film “plausibile” ma inventato) che nella realtà (con una storia “plausibile” ma semi-inventata). Più che a Babylon, in apparenza la sua referenza più facile, Finalmente l’alba sembra dialogare con il Tarantino di C’era una volta a… Hollywood, senza spingersi davvero nel campo della riscrittura della “storia ufficiale”.
Costanzo sceglie, piuttosto, di evocare quella storia nera attraverso un racconto che segue le direzioni fondamentali della vicenda Montesi: una giovane del popolo che entra nelle retrovie del mondo del cinema e che, per circostanze qui con funzioni chiaramente “allegoriche”, finisce proprio nella villa di Capocotta, pochi giorni dopo la morte di Wilma. Costanzo ne offre una versione alternativa e suggestiva, ucronica appunto perché Mimosa, la protagonista disegnata come una vignetta di Furio Scarpelli (il breve ma incisivo quadretto familiare è puro neorealismo rosa, con Carmen Pommella un po’ Vittoria Crispo e un po’ Ave Ninchi), è una finzione che si relaziona con persone davvero esistite (Valli, Piccioni, il viscido marchese Ugo Montagna che gestiva le feste nella villa) e personaggi inventati ma credibili. Da Josephine Esperanto, archetipo della diva che bivacca nella Hollywood sul Tevere e che ne riconosce e teme l’inconsapevole talento primitivo di Mimosa (forse Lily James non è mai stata così brava), a Lockwood che da oggetto del desiderio in celluloide svela il lato oscuro del divo, tra lo Sceicco Bianco o l’Amedeo Nazzari delle Notti di Cabiria (il Joel Kerry di Stranger Things), fino a Rufo Priori, collezionista e Caronte, stereotipo dell’elegante bon vivant americano incantato dalla grande bellezza romana (Willem Dafoe ne è l’ovvia personificazione).
È un film molto scritto, Finalmente l’alba, che svela presto la sua dimensione teorica e non riesce subito a procedere spedito, un po’ perché rischia di entrare in un vicolo cieco nel distacco iniziale tra il “film nel film” (che per inquadrature, tono e grana non è un effettivo ricalco di una pellicola dell’epoca) e la virata verso il period drama più tradizionale (grande ricostruzione). Quando arriva alla giornata che vale una vita, romanzo di formazione tra due albe, trova la luce e la voce, individuando nella reiterata immagine del labirinto la chiave d’accesso per entrare nello spaesamento della protagonista, una sedotta che nasconde – e scopre – un’anima da seduttrice e che si lascia sballottare da una Cinecittà attraversata come un entusiasmante dedalo, un circo, una baraonda. Il labirinto è l’immagine che guida Costanzo: la Roma notturna non esiste se non nell’auto, l’esterno passa da un set cinematografico (l’Egitto, scenario del kolossal “autoriflessivo” con la Esperanto) a uno reale (una tipica trattoria di fronte alle rovine romane) e l’oscurità favorisce lo smarrimento fino a Capocotta. Dove c’è la villa che, in un tipico rovesciamento di Costanzo, autore con una spiccata sensibilità per l’horror, diventa la villa degli orrori, con Mimosa sempre più minacciata e assediata che corre, cerca di fuggire, si lascia incastrare.
È il momento migliore di Finalmente l’alba: Costanzo sa usare bene il suo naturale sguardo gotico (certi primi piani sghembi che quasi deformano i volti degli orchi), il sincopato e inquietante tessuto sonoro dell’insigne Massimo Martellotta, il montaggio di Francesca Calvelli che qui sa costruire una tensione anche per ellissi. Ciò che non sempre torna nel film è la compenetrazione tra lo spaccato storico utile anche per i contemporanei (nel suo essere tragica o quasi, è una storia classica perché non invecchia mai, tra ambizione e predazione) e il racconto di formazione di Mimosa (la newcomer Rebecca Antonaci buca lo schermo perché sa incarnare lo scandalo della purezza), con quel finale posticcio che fa prevelare il personale sul collettivo e copre quello che, proprio perché dentro il gioco vertiginoso dello “specchio della vita”, avrebbe sancito una conclusione più aperta e al contempo complessa. Costanzo, invece, ha scelto il sorrentinismo di derivazione felliniana, forse per il bisogno di regalare un’immagine iconica, per la necessità di chiudere con una nota surreale il viaggio al termine della notte, per la paura di abbandonare al suo destino la protagonista.
Quando funziona, Finalmente l’alba sa essere un vivo e intimo coming of age e una calata negli abissi degli idealizzati anni Cinquanta italiani; quando non funziona, diventa un teorema che ha paura della frammentazione e si avvinghia all’appiglio più comodo. Comunque audace, dedicato al papà di Costanzo, il compianto Maurizio: ci piace pensare che sia uno di quei giovanotti nella trattoria, intento a mangiare mentre aguzza l’udito per ascoltare le schermaglie nella tavolata degli americani.