“Grazie per minimizzare il processo” dice Armie Hammer alla donna che non capisce il suo rapporto con Geoffrey Rush, ovvero con Alberto Giacometti. E purtroppo Stanley Tucci in Final Portrait, presentato fuori concorso a Berlino, fa esattamente questo: minimizzare il processo creativo di un grande artista con un film quasi irritante.

La sceneggiatura dello stesso Tucci racconta i 18 giorni che Giacometti trascorse con lo scrittore James Lord per realizzare un ritratto travagliato in cui l’artista svizzero si metterà a nudo più del suo modello: ma non è un confronto fitto quello che esce fuori dal film, ma è una sorta di commedia biografica in cui tutti i cliché dell’artista genio, sregolato, narciso e auto-distruttivo, attratto dalle donne (e soprattutto dalle prostitute) e respinto dal denaro, vengono trattati attraverso tutti i cliché del cinema d’artista.

La fotografia di Danny Cohen ricrea la paletta di colori dell’opera di Giacometti (grigio profondo e monocorde), la musica di Evan Lurie si adagia alla canzone parigina degli anni ’60, il tono alterna attimi di relax e sfuriate passionali, gli aneddoti e le curiosità pettegole sostituiscono lo sguardo umano o la riflessione artistica. E su tutto, dominano attori che oscillano tra il gigione e la macchietta (soprattutto i due fratelli Giacometti, Rush e Tony Shalhoub, ma anche Clémence Poesy non scherza) per imitare figure che dalla storia vorrebbero ben altro posto.

A cosa serve un film del genere? A chi serve? Non racconta l’uomo, non indaga l’artista - al di là del fatto che mostrare la replica della pittura di un maestro da parte di uno stunt è sottilmente disonesto, quasi una truffa - e non riflette sul processo creativo.

 

Si potrebbero fare esempi più alti o utili, dai documentari BBC al Mistero Picasso di Clouzot passando per La bella scontrosa di Rivette, ma sarebbe inutile: a Tucci interessano le gag sul pittore pazzerello ripetute ad libitum e le curiosità spicciole per far ridacchiare il pubblico. Beato lui.