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Felicità - Matteo Olivetti, Anna Galiena, Micaela Ramazzotti, Max Tortora - foto di Lucia Iuorio
Chiudete gli occhi. Ora pensate a Micaela Ramazzotti. Di sicuro la immaginerete in movimento, trafelata, che corre da una parte all'altra, per fuggire da qualcosa o per raggiungere qualcos'altro. Per scappare da un uomo con cui è finita una storia, o per rifugiarsi in un abbraccio, un porto sicuro, che ne mitighi l'agitazione, o la sofferenza.
La sua Desirè ("con l'accento") non si discosta da queste caratteristiche, incarna i topoi che da Tutta la vita davanti (2008) hanno accompagnato la crescita di un'attrice che ora, con Felicità, fa anche il suo esordio dietro la macchina da presa. È la summa di un percorso, definito con forza dal sodalizio di vita e artistico con Paolo Virzì (La prima cosa bella e La pazza gioia, su tutti) che la porta oggi a costruire un personaggio, e un film, che ce la fanno ritrovare cresciuta, compiuta, consapevole del proprio status di donna e artista ancora in movimento, ancora in fuga (da qualcuno, da qualcosa) e ancora in cerca di approdi sicuri o di svolte che possano lenire un dolore, una delusione, che possano aiutare lei e le persone che ama.
Scritto insieme a Isabella Cecchi e Alessandra Guidi, Felicità (in Orizzonti Extra a Venezia 80, dal 21 settembre in sala) ci mette sin da subito al cospetto di questa giovane donna, nel chiuso di una roulotte su un set cinematografico, intenta a sistemare l'acconciatura di un attore che non perde tempo a provarci con lei: nell'ambiente d'altronde Desirè è soprannominata "la bicicletta", perché tutti "ci hanno fatto un giro"...
Di estrazione modesta, ma dal cuore grande, mette i soldi da parte da quando ha 16 anni e, per questo, non si tira indietro quando il padre la convince a firmare una finanziaria per la licenza da NCC del secondogenito, Claudio (Matteo Olivetti), ragazzo che vive ancora a casa dei genitori.
È l'ennesima forzatura, capiremo strada facendo, di una famiglia che divora ogni speranza di libertà per i propri figli. Una famiglia tossica. In modi differenti, Desirè e Claudio - uniti da un amore fraterno indissolubile - hanno costruito una personalità che inevitabilmente li costringe a non saper stare al mondo in maniera felice.
Lei, fuggita giovanissima da quel nido disfunzionale, crede di poter risolvere qualsiasi questione attraverso il sesso (ed è così, in fondo, che tiene in vita il suo rapporto sbilenco con Bruno, professore universitario che ne giudica ogni azione, o parola, interpretato da Sergio Rubini), lui - più fragile - rimasto ingabbiato in quella casa, con l'autostima sotterrata dalle continue esternazioni retrograde e ignoranti dei due genitori, è schiavo di una depressione che naturalmente viene quotidianamente sottovalutata, scansata ("io t'ho messo al mondo sano!", oppure "ai tempi miei ste stronzate non esistevano"), considerata alla stessa stregua di un malessere passeggero e immotivato.
Ecco, la piacevole e al tempo stesso dolorosa sorpresa che accompagna la visione di questo film sta proprio nell'indiscutibile capacità di costruire un racconto che sembra partire in un certo modo, carezzando i lidi della commedia familiare, per giungere infine verso il dramma del disagio psichico. Cresce minuto dopo minuto, Felicità, perché sa toccare corde neanche troppo nascoste di figli (lo siamo tutti) e genitori che non necessariamente devono aver vissuto le stesse situazioni, ma che sanno che non deve accadere chissà che cosa perché possano manifestarsi, sedimentarsi, esplodere.
È mosso da una sincerità costante, dall'umiltà di un'attrice, ora anche regista, che sa anche continuare a prendersi in giro (le sgrammaticature lessicali, che ricordano tanto la Giovanna Ralli di C'eravamo tanto amati...) ma che in qualche modo si “emancipa” insieme al personaggio che interpreta, aiutando alla ricerca della felicità chi ama (il fratello), e che sa prendere il meglio da tutto ciò che la circonda, come Anna Galiena nei panni di questa madre convinta di essere stata tradita da una figlia "arrivista" e per questo così soffocante nei confronti del figlio, o un Max Tortora ancora una volta gigantesco nei panni di questo padre con ambizioni da attore che invece viene costantemente "freezato" un attimo prima che finisca il suo spettacolino su una misera tv privata, sempre affamato di soldi al punto di mettere i figli nelle mani degli strozzini.
La Ramazzotti gli regala anche uno dei momenti più tragicomici del film, quando su un set tenta di proporsi ad un regista (cammeo di Giovanni Veronesi, che interpreta se stesso) e questi lo fa truccare per farlo esibire di fronte alla troupe, ovviamente per deriderlo, scena che ricorda molto quella del Baggini di Tognazzi in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli e il sirtaki di Alessandro Haber in Simpatici & antipatici di Christian De Sica.
L'esplosiva esuberanza, fisica e dialettica, che caratterizza i contorni di questo personaggio al tempo stesso irresistibile e ripugnante trova il contraltare nella prova, altresì convincente, di Matteo Olivetti, che cinque anni fa esordiva con i D'Innocenzo in La terra dell'abbastanza (dove Tortora era il padre dell'amico Carpenzano), chiamato a restituire la sofferente condizione di un ragazzo che solo grazie alla sorella, alla tenacia di questa creatura imperfetta e violentata (dal passato, dalla vita), riuscirà finalmente a non perdere l'ultimo treno.