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Paul Mescal e Andrew Scott in Estranei. Photo by Chris Harris. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 20th Century Studios All Rights Reserved.
Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi: Andrew Haigh lo sa bene e Weekend (un breve incontro destinato a incastonarsi nella memoria) e 45 anni (una lunga storia denudata di fronte alla verità nascosta) stanno lì a dimostrare quanto sia profondo e struggente lo sguardo di un regista sempre disperatamente bisognoso di credere nell’amore come salvezza. Sulle onde del protagonista di Estranei, uno sceneggiatore intrappolato in un trauma mai elaborato, Haigh deve “ricordarsi che quando ci si bacia si deve prendere fiato” e perciò si sintonizza sull’affanno di Adam (più vicino ai cinquant’anni che ai quaranta eppure senza età, con gli occhi di un bambino ferito, il corpo di un adolescente inesperto, l’intimità di uno che ha rinunciato a vivere: Andrew Scott da brividi), si immerge nelle sue paure, fa detonare nel dolore il riverbero del ricordo.
Estranei è un melodramma cosmico e un fantasy dilaniato, che passa dal tattile al fantasmatico, isolando i personaggi in un paesaggio sospeso tra un centro alienante (un palazzo londinese praticamente disabitato) e un sobborgo idealizzato (una villetta immersa nel verde) e collegato da un treno che corre su binari al di là delle leggi di questo mondo.
Tratto dal romanzo di Taichi Yamada, Estranei ha un incipit folgorante, che esplora il palazzo per sondare le solitudini: Adam apre la porta e si trova Harry – l’unico altro inquilino del condominio – sulla soglia di casa, affascinante come ogni sconosciuto che incarna il desiderio ma anche troppo sbronzo per essere affidabile. Paul Mescal è fenomenale nell’incarnare il romanticismo dei falliti e l’erotismo dei solitari, la tenerezza dei malinconici e l’istinto dei felini. Si riconoscono, Adam e Harry, prima di riconoscersi, nonostante la ritrosia dell’uno e l’intraprendenza dell’altro.
Ma per andare avanti, e per darsi una possibilità di essere felice, Adam deve fare i conti con il passato che non passa, che cerca di entrare nelle pagine della sceneggiatura in panne: ed è proprio un meccanismo cinematografico che fa slittare la narrazione, un “esterno, sobborgo, 1987” che colloca la storia in lavorazione nella memoria incarnata, con le parole che non riescono ad affiorare sulla pagina bianca che si reificano nelle magnifiche presenze. Adam, infatti, visita la sua vecchia casa, dove ritrova i genitori fermi nel tempo come l’ultima volta in cui li ha visti, prima di morire in un incidente d’auto: sono più giovani del lui di oggi, vestiti con gli abiti che indossavano nel momento fatale, addolorati per non essere stati all’altezza (“Non mi sono gustata le tue marachelle” si cruccia la mamma, “Mi dispiace non averti chiesto perché piangevi” si strazia il papà: Claire Foy e Jamie Bell sono straordinari), curiosi di scoprire la vita di quel figlio tanto amato quanto forse non compreso fino in fondo.
Estranei è anche una disanima sull’evoluzione della percezione dell’omosessualità, fa incontrare (e scontrare) due prospettive storiche, fa specchiare gli imbarazzi di una generazione che non si poneva il problema con i grovigli di un uomo i cui tormenti non coincidono con l’orientamento sessuale (la discussione sul termine “queer” è notevole). Ed è un racconto sulla genitorialità, dove ci si prende carico dei non-detti per trasformarli in chiarimenti, si cerca nel passato la chiave per capire cosa non va nel presente, ci si accorge che oltre la facciata c’è dell’altro (“Nonostante i problemi sono felice di essere stata con te” dice la mamma al papà, lasciando trasparire le crepe di un amore divinizzato).
Si piange molto, in Estranei, come se fossimo dentro una necessaria e ritardata elaborazione del lutto, un viaggio nella mente attraversato anche da canzoni degli anni Ottanta che vanno oltre la diegesi e diventano pezzi di un musical interno (una per tutte, l’addobbo dell’albero di Natale dopo la chetamina in discoteca: “You were always on my mind/ Tell me/ Tell me that your sweet love hasn’t died/ Give me/ Give me one more chance to keep you satisfied, satisfied”). Quasi a sottolineare quanto Estranei sia soprattutto un’esperienza sensoriale che trascende il realismo, con la scelta del 35 mm a evocare il radicamento dell’onirico nel reale (la fotografia è di Jamie Ramsay): i corpi hanno la consistenza degli spettri, svaniscono e riappaiono, i vetri tradiscono la verità, Adam si dissolve nel finestrino della metro e si riconfigura tra le luci di una discoteca, l’abbraccio diventa una supernova (“Love is the light/ Scaring darkness away-yeah” si sente in The Power of Love, vera parafrasi del film: “I’ll protect you from the hooded claw/ Keep the vampires from your door/ When the chips are down I’ll be around/ With my undying, death-defying/ Love for you”).
È un’esplosione di cinema, Estranei. Di cinema indispensabile. Che crede nella forma come contenuto e che si incarica delle cose più importanti quando fa dire a un personaggio “So quanto è facile smettere di prendersi cura di sé”: la cura del prossimo, la pace con se stessi, la speranza nel futuro. “Ho anche bei ricordi”, dice Adam: nei pressi del capolavoro.