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El Paraìso - Margherita Rosa de Francisco Baquero, Edoardo Pesce @ Matteo Graia
Dopo il documentario Saro (2016) e l'approdo alla serialità (Sanctuary, Romulus e Django), Enrico Maria Artale torna alla regia di un lungometraggio di finzione 10 anni dopo l'esordio Il terzo tempo.
Come allora, anche oggi il film è in Orizzonti alla Mostra di Venezia. E, come allora, nel cast - stavolta da protagonista - c'è Edoardo Pesce, anche coautore del soggetto del film: l'attore è Julio Cesar, uomo di quasi 40 anni che vive ancora con sua madre (Margarita Rosa de Francisco Baquero), donna colombiana dalla personalità trascinante. Vivono in una casetta sulle acque di Fiumicino, per guadagnare due lire tengono e tagliano la cocaina per lo spacciatore della zona, Lucio (Gabriel Montesi). Un'esistenza ai margini, vissuta però con amore, con la passione per le serate di salsa e merengue e con le gite in mare aperto sulla barchetta che Julio Cesar manutiene con cura.
Questo equilibrio però rischia di andare in pezzi con l'arrivo di Ines (Maria Del Rosario Barreto Escobar), giovane "mula" arrivata da Cali con un carico di cocaina che per un paio di giorni dovrà rimanere a casa con loro.
Prodotto da Matteo Rovere e Andrea Paris, Carla Altieri e Roberto De Paolis, El Paraíso inquadra con naturalezza le contraddizioni di questo rapporto simbiotico e al tempo stesso morboso, opprimente: Artale è bravo a mantenere costante questa cifra di tensione sotterranea inserendo momenti di evasione e tenerezza (si pensi all'ipotesi di amicizia tra Julio Cesar e Ines) o di commedia pura ("Già ciò mi madre che me rompe i cojoni, me ce manca una cosa seria"), dice Pesce quando la ragazza gli chiede se è impegnato sentimentalmente.
Gli danno una grande mano anche i suoi interpreti: l'esplosività di Margarita Rosa de Francisco Baquero, sessantenne amante della vita e dello sballo, è ben bilanciata dalla prova di Edoardo Pesce, chiamato ad un ruolo non semplice, quello di un uomo che razionalmente vorrebbe emanciparsi da quella gabbia d'amore ma che non riesce mai a farlo davvero.
Julio Cesar trattiene dentro di sé un fuoco che potrebbe deflagrare da un momento all'altro, cosa però che per il bene del film non accade praticamente quasi mai. Lo capiamo già dall'inizio del racconto, nel localino dove un uomo invita la madre a ballare e poi insiste per dare seguito a quell'incontro: questa rabbia soffocata, questa continua lotta tra sentimenti ambigui è la cifra che accompagna lo sviluppo del personaggio.
Che dapprima dovrà contenere la gelosia irrazionale della mamma dopo l'arrivo di Ines e poi cercare di ristabilire un contatto con le proprie, sconosciute origini: a raccontarla, quella tremenda scelta che anticipa il viaggio in Colombia, potrebbe sembrare tanto estrema quanto inverosimile. E invece è propedeutica ad un finale tremendamente coerente, quasi circolare, con Madre di Ismael Miranda che in quella bettola di Cali asseconda gli ultimi passi di una danza che non prevede più alcuna possibilità di separazione.
Un film ben immaginato, ben realizzato, portato in porto con sicurezza. Niente male.