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El Conde di Pablo Larraín @Netflix
Il potere, le sue ramificazioni, la sua sete di sangue, il suo infinito ciclo, l'eredità (im)possibile.
L'ossessione di Pablo Larraín, il potere, da quell'obitorio teatro di Post Mortem (2010) ai voli notturni di un vampiro in cerca di giovani cuori da frullare per mantenersi eterno: El Conde riporta il regista cileno in gara a Venezia per la quinta volta.
Messe da parte le parentesi biografiche di Jackie e Diana (Spencer), in attesa della Callas con Angelina Jolie (Maria), Larraín si concede un macabro divertissement, un'allegoria horror per tornare a posare il suo sguardo su Augusto Pinochet, generale che nel 1973 (l'11 settembre, per la precisione) mise in atto il colpo di stato per spodestare il presidente Salvador Allende e instaurare una dittatura durata quasi 20 anni.
In realtà, è questa la geniale trovata del film, il potere controrivoluzionario di Pinochet è ancora vivo, e lo è da qualcosa come 250 anni...
Una voce di donna inglese funge da narratore onnisciente, il prologo ci riporta ai giorni della rivoluzione francese: l'orfano Claude Pinoche, già soldato di Luigi XVI, mette in scena la propria morte per decidere di andare a vivere altrove (per sempre...) e combattere qualsiasi forma di rivoluzione dal basso.
Oggi (o quello che stiamo vedendo è già domani?), anziano, Pinochet (Jaime Vadell) vive nascosto in un palazzo in rovina nella gelida Patagonia. Decide di non bere più sangue e lasciarsi morire: lo umilia il fatto che per il mondo sia stato prima un ladro che un terribile assassino. La moglie e i cinque figli lo circondano nella speranza che dai sotterranei venga fuori qualche documento, qualche carta, che regali loro la ricchezza (eterna, pure quella), il fedele servitore, Fyodor Krassnoff (Alfredo Castro, per la settima volta in un film di Larraín), che per lui ha già ucciso "centinaia di comunisti", continua ad amarlo in modo fedele e incondizionato.
Sarà l'arrivo di una giovane e affascinante suora esorcista (sotto le spoglie di contabile) a far tornare Pinochet sui propri passi?
La dittatura, la Chiesa ("dittatura e religione fanno l'orgia sul balcone", cantavano i Litfiba in Santiago...), l'occidente: attraverso un bianco e nero opaco e nebbioso, con evidenti richiami al cinema muto europeo (il Nosferatu di Murnau, La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer), Larraín sorprende ancora una volta, costruisce (insieme a Guillermo Calderón, coautore dello script) un film di matrice horror/fantasy partendo da una suggestione (alcune foto di generali cileni in divisa coperti da vistosi mantelli...) per arrivare ad un assunto da incubo, quello del dittatore vampiro che continua a ringiovanire e a ritornare per sempre, come una minaccia che non scompare mai.
È l'essenza dell'impunità, la catena degli orrori, l'insaziabile sete del potere (temporale, secolare, spirituale...) che il regista cileno mette in risalto, ridicolizzandone gli aspetti più intimi (Pinochet che si muove col deambulatore, la stupida arroganza dei figli), utilizzando le traiettorie dell'ucronia satirica per stimolare la riflessione sulla persistenza del male nel corso della storia e come l'autoritarismo, la crudeltà e la difesa dei privilegi diventino forze che persistono nel tempo. Sferrando in chiusura il coup de théâtre, con l'arrivo in scena di quella che fino a quel momento era stata solamente una voce over, perché sì, alla fine torna tutto, anche i vampiri (apparentemente orfani) hanno una madre.
Che non può restare a guardare quando le cose rischiano di prendere una strada lontana dal disegno complessivo: "Se vuoi che una cosa venga detta chiedi a un uomo, se vuoi che una cosa venga fatta chiedi a una donna".