PHOTO
Una vita, forse due. Una speranza, ormai sopita. Una violenza, inarrestabile. Un poliziotto, un assassino. Un padre, una figlia. L’Italia, l’America Latina. Una colonscopia, il cinema. E potremmo andare avanti. Le parole, la scrittura, i fogli vicino ai cadaveri: Dostoevskij, la serie di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Il richiamo letterario è immediato, quasi feroce. Ma sarebbe troppo facile soffermarsi su quell’unico nome, che possiamo collegare a malattia e capolavori.
Pensiamo invece a Friedrich Dürrenmatt, al suo capolavoro, La promessa. Nel finale, l’investigatore aveva perso la testa per il suo fallimento. Non riusciva ad ascoltare la verità. Negli Stati Uniti aveva il volto di Jack Nicholson, da noi quello di Rossano Brazzi. Per provare a decifrare Dostoevskij bisogna partire da quella disperazione, da quel fallimento.
Non è più tempo per La terra dell’abbastanza, per la moralità dell’inquadratura. Il mondo è andato avanti, si è fatto più crudele. Nell’esordio dei fratelli D’Innocenzo c’era una luce che adesso non brilla più. L’oscurità, a qualsiasi livello, è protagonista. La brutalità non è in campo lungo: sfida lo spettatore, lo fa sentire colpevole. Che cosa osservare? Fino a che punto spingersi? La risposta ce la forniscono i due registi. A un certo punto il protagonista Filippo Timi si sottopone a una colonscopia. In questa sequenza c’è la chiave: è un cinema viscerale, che entra in profondità, non accetta compromessi, ribalta la sociologia fin troppo semplicistica a cui oggi siamo abituati. Quell’immagine è figlia dei fratelli Safdie, che hanno scelto nel 2019 di aprire Diamanti grezzi proprio con una colonscopia. Medicina, macchina da presa. Per domandarsi che cosa sia davvero l’immagine oggi e come si specchi nell’anima, nella ricerca di senso.
Il percorso verso gli inferi era già chiaro in Favolacce. Non ci si può fidare delle storie, dell’innocenza. Tutto è testamentario, mortifero, in un’Italia che è un’America Latina. Timi si sposta in pick-up, i campi di granoturco mandano a un immaginario d’oltreoceano. C’è il furore degli anni perduti in Dostoevskij, lo spirito famelico di due cineasti che non si accontentano, e vogliono spingersi sempre più in là. E il miglior modo per raccontare una genesi, una nascita, come insegna anche Scorsese in Killers of the Flower Moon, è metterne in scena il funerale. Nella bara ci sono i modelli precostituiti, i falsi profeti.
Dostoevskij è un flusso incontenibile: nudo, a tratti rude, selvaggio, magnetico, con esiti devastanti. La coscienza è sotto scacco, in un’epopea che rifiuta l’epica e si confronta con l’abisso. Presentato in anteprima al Festival di Berlino, prossimamente in sala. Con una seconda stagione in arrivo?