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Dopo la guerra
Bologna, 2002. Le proteste per la riforma del lavoro divampano all’università, e un giudice – ogni riferimento al giuslavorista Marco Biagi non è puramente casuale – viene assassinato. La responsabilità, quantomeno, politica viene attribuita a Marco (Giuseppe Battiston), un militante di estrema sinistra condannato per omicidio e riparato in Francia da 20 anni in virtù della Dottrina Mitterand, concernente il diritto d’asilo e rimasta in vigore dal 1985 al 2003. Quando il governo italiano ne chiede l’estradizione, Marco deve fuggire insieme alla figlia 16enne Viola (Charlotte Cétaire), ma non sarà facile…
Esordio al lungometraggio di Annarita Zambrano, già cortista con A la lune montante (2009) e Tre ore (2010) e documentarista con L’anima del gattopardo (2014), Dopo la guerra ha interpreti non disprezzabili: Battiston parla in francese e non sfigura, ma non dimostra mai di crederci fino in fondo; la giovane Cétaire è rossa, diafana e se la cava con stile; Barbora Bobulova, nella parte della sorella di Marco che vive a Bologna con marito giudice e figlia piccola, ha misura e quasi sempre compostezza. E anche la regia non sfigura: il rischio della fiction tv è sensibile, ma la macchina da presa è snella e mai sciatta, si prende anche qualche rischio estetico.
Il problema, grosso, del film è che la sceneggiatura, dai dialoghi allo sviluppo della storia, non è mai all’altezza del tema: imbelle, se non puerile, procede per frasi fatte, associazioni indebite (vedi terrorismo e eroina) e nessun approdo, nessuna via d’uscita se non un colpo di scena forse insulso, di certo forzato e perfino scorretto.
Dopo la guerra rimane un’occasione perduta, un film che non riconcilia con la storia, e passi, ma nemmeno con il cinema: coproduzione Francia, Italia e Belgio, parrebbe in realtà italianissimo per come si bea del soggetto disinteressandosi, dunque eludendo, trattamento e sceneggiatura.