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Don't Worry Darling (Credits Courtesy of Warner Bros. Pictures)
Se c’è un merito che va riconosciuto a Don’t Worry Darling, opera seconda di Olivia Wilde dopo il sorprendente La rivincita delle sfigate, è la fiducia nel divismo. Questo film attraente, modaiolo, elegante, eccitante, presentato non a caso Fuori Concorso alla Mostra di Venezia, si regge infatti sul fascino, sul carisma, sulla bellezza dei suoi protagonisti, Florence Pugh e Harry Styles.
Sia lei, classe 1996, impostasi come giovane vestale del cinema d’autore (Lady Macbeth, il cult indie Midsommar), che lui, vera popstar mondiale ventottenne già visto come attore in Dunkirk ed Eternals, trovano qui la vera consacrazione mainstream grazie a tre caratteristiche ben chiare alla regista (anche attrice non protagonista).
La prima è l’idea romantica e industriale che il grande schermo sia in grado come nessun altro strumento mediatico di plasmare il desiderio del pubblico ed esaltare il portato iconico e iconografico degli interpreti. La seconda è l’inserimento di queste figure all’interno di una storia inquietante e paranoica come molte altre narrazioni sintomatiche delle angosce del nostro tempo. E la terza è la confezione così patinata e levigata da trasmettere sì il concetto del “filmone hollywoodiano” ma anche una propaggine di un contenuto social.
La storia, anzitutto. Alice e Jack vivono in una comunità idealizzata, una città aziendale sperimentale in cui gli uomini lavorano a un progetto top-secret e le donne si occupano della casa e dei figli. L’epoca è volontariamente sfuggente: il décor e l’ottimismo sono quelli degli anni Cinquanta, le pulsioni (represse e non) e la consapevolezza appartengono all’oggi. La perfezione è un dovere e le domande inopportune vanno evitate.
Come le cicliche scosse (terremoto?) che fanno tremare le case, così le certezze – o presunte tali – di Alice vacillano di fronte alle crepe: una moglie che si ribella e le immagini ossessive di un passato oscuro portano la donna a interrogarsi sull’inquietante pericolosità di quella comunità, provocando la reazione violenta del capo carismatico (Chris Pine, quasi fastidioso per la sua bellezza così alterata fino a farsi ambigua).
Con una certa abilità e indubbia scaltrezza, Wilde procede su due piani: da una parte, agisce nell’ambito di un territorio ampiamente esplorato, mettendo in piedi una sfrontata operazione derivativa in cui convoca la distopia in direzione sci-fi (La fabbrica delle mogli e The Truman Show, per citare due titoli piuttosto evidenti nella teoria di riferimenti); dall’altra, complice la fotografia di Matthew Libatique (collaboratore storico di Darren Aronofsky), filtra il realismo virando verso l’estetica tipica di un contenuto social.
Don’t Worry Darling non costruisce un immaginario ma ne digerisce altri preesistenti: non solo ogni frame può essere estrapolato per essere condiviso in quanto immagine che vive in maniera autonoma rispetto al contenuto e al contenitore, ma ci sono anche passaggi che somigliano a un reel di Instagram e diventano funzionali sia al discorso della reiterazione di rituali (la colazione, il saluto ai mariti, le macchine che sfrecciano nella landa) sia al consumo su altri media e alla loro presa virale.
In questo senso è davvero un film contemporaneo, così come lo è sul piano dell’eros: a parte due sequenze con Pugh e Styles effettivamente roventi, tutto il resto dimostra ancora una volta quanto l’erotismo sia un grande rimosso del cinema americano.
Non siamo così ingenui da non capire che c’è un tema di rating (in particolare per il mercato degli States), ma, insomma, racconta bene lo spirito del tempo che un’operazione così incardinata sul desiderio e sulla desiderabilità si tiri indietro di fronte alle possibilità date dalla chimica e dalla carnalità, preferendo la meno perturbante strada dei “temi” (le derive tossiche del patriarcato, la fuga dalle responsabilità del quotidiano, la necessità dell’emancipazione). Piacevole, superficiale.