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Dogman
“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, sosteneva Alphonse de Lamartine. E, letto al contrario, Dog diventa God. Sarà un caso o forse no, ma di solito i cani ci offrono le uniche due cose che davvero contano nella vita: l’amore e la protezione. Spesso i cinofili amano dire che più conoscono le persone e più amano i cani, eppure anche gli animali prediletti dagli umani hanno un difetto: si fidano di loro. I cani si fidano di Douglas detto Doug (una “u” di troppo, ma la radice è sempre lì), protagonista di Dogman, il film con cui Luc Besson si presenta in Concorso a Venezia 80, tornando ad ambizioni d’altri tempi che si esprimono soprattutto in un personaggio tragico e sublime, che nel ricordo degli antieroi di Léon e Subway si colloca al crocevia tra la dimensione shakespeariana e l’evocazione fumettistica (i primi piani à la Joker sono calcolati).
Vittima di atroci violenze domestiche per mano del patrigno e del fratello, Doug viene salvato dall’amore dei fedelissimi cani con i quali instaura un legame dai tratti perfino paranormali: non solo eseguono gli ordini, ma capiscono sguardi e frasi e si mettono a disposizione del padrone-amico per vendicare torti. E mentre cerca invano un lavoro “ordinario”, abita ai margini di una società incapace di dargli voce e trova uno spazio espressivo calandosi in panni altrui (il mascheramento come via di fuga e possibilità di appiccicarsi volti alternativi).
È una storia profondamente simbolica, quella di Dogman, talmente didascalica da farsi apodittica, strutturata in modo efficace quanto elementare, che al netto di una regia come di consueto rozza e sensazionalista sa portare avanti un discorso spirituale a suo modo inaspettato sulla cura del prossimo (la vendetta come “regolamento dei conti” contro chi ha prevaricato sui deboli), sulla solitudine in una società ostile (nei fatti, Doug è un reietto: dalla prigione di casa finisce in una di Stato passando per luoghi che, in un modo o nell’altro, lo respingono), sull’amore che guarisce da un trauma (l’intesa emotiva tra chi riconosce il proprio dolore negli occhi altrui: accade tra Doug e la psicologa che ne indaga il passato, ma anche tra Doug e i cani), sulla necessità della salvezza (nessuno si salva da solo, come si vede nel doppio finale a trazione cristologica).
È un film sicuramente coinvolgente, che dialoga con il pubblico interrogandone tormenti e contraddizioni, veicolato dalla performance straordinaria di Caleb Landry-Jones, già in predicato di premio (alla Mostra e non solo: la campagna per l’Oscar non è improbabile): è lui che “fa” il film insieme al cast di cani (tutti incredibili), cambiando volto e pelle, dilaniato dall’amore impossibile (la famiglia, una donna, il mondo), trasfigurato in altre figure devastate (Edith Piaf soprattutto, che re-interpreta in un momento di grande effetto, ma anche Marilyn, nei cui panni si muove nelle sequenze più action), disperatamente desideroso di tornare verticale.