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Con la grazia di un Dio (foto di Gianluca Bazzoli)
Sembra una canzone di Tropico, Con la grazia di un Dio, opera prima di Alessandro Roia (presentato alle Notti Veneziane, spazio off realizzato dalle Giornate degli Autori in accordo con Isola Edipo), che con l’universo narrato dal cantautore napoletano condivide la malinconia dilaniante, l’orizzonte del crepuscolo, la tensione verso il sottobosco. Napoli, tuttavia, non c’entra, nonostante la presenza di un Tommaso Ragno asciutto e irrequieto rimandi a Nostalgia, film che anche nei temi (il peso del passato, lo spaesamento nel presente, la fatica della redenzione) sembra del tutto contiguo all’esordio di un attore sempre bravo e forse mai del tutto valorizzato (anche sceneggiatore con Ivano Fachin).
Al posto della città partenopea, la più presente nel nostro audiovisivo contemporaneo, c’è una di quelle meno viste e sfruttate sul grande schermo: Genova. Che per decadenza e clima umido sembra Napoli, certo, ma anche una versione italiana di Marsiglia e l’ipotesi di un incrocio mediterraneo tra l’Africa bianca e il Portogallo, perché Roia in quei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” esplora il sottobosco di una piccola criminalità che non conosce la maturità dell’anagrafe. Cinquantenni che cercano (invano) la felicità dentro a un bicchiere, masticando il vetro per sfidare la morte e rivendicare potenza: “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.
Protagonista è Luca, un affermato ristoratore che dopo venticinque anni torna a Genova per partecipare ai funerali di colui che un tempo era il suo migliore amico. Ma Luca, che ha chiuso con quella vita sregolata, non crede alla versione ufficiale della morte (overdose), condivisa dagli altri amici come un ambiguo camallo e la “vedova” punkabbestia, e comincia a indagare, schiantandosi contro i fantasmi, scavando nella memoria, lasciandosi lacerare a poco a poco dall’animale che era convinto di aver domato per sempre. Genova è personaggio attivo, madre e matrigna, città squarciata come ne Le mura di Malapaga e malinconica come in Stregati.
Secco (pochi orpelli, controllo sicuro) e conciso (settantaquattro minuti: montaggio di Marco Spoletini), con la lama affilata che maciulla il tonno ad annunciare in apertura ad annunciarci il richiamo del sangue (torna nel finale, a concludere il taglio), Con la grazia di un Dio è un noir cupo (fotografia di Massimiliano Kuveiller) e teso (musica elettronica di Lyra Pramuk), credibile tanto negli spazi acidi dei club quanto tra gli impenetrabili vicoli, retto da un Ragno in gran forma, affiancato da Maya Sansa in un ruolo inconsueto e Sergio Romano.