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Sophie Thatcher e Jack Quaid in Companion (2025), @WarnerBros
Più che una storia positiva sull’intelligenza artificiale, come dichiarato dal regista e sceneggiatore Drew Hancock, sembra una di quelle sceneggiature suggerite dall’AI stessa. Prompt: raccontami una storia d’amore sull’intelligenza artificiale che contenga elementi da cinema dell’orrore. Probabilmente le cose non saranno andate così ma il risultato vi si avvicina di parecchio. Perché tra i molti difetti che affliggono Companion , quello che salta più all’occhio è la sua natura di prodotto autogenerato e vagamente anonimo.
Lo capisci dalla struttura compilativa dello script, dove è facile riconoscere blocchi di trama e pezzi di discorso appartenenti a immaginari e filoni ampiamenti codificati. A partire dall’uso della voce narrante della protagonista (Sophie Thatcher), la tipica fidanzata iperinsicura e stra-innamorata di un lui prevedibilmente str**** ( Jack Quaid), espediente di molte rom-com americane, evocate tipograficamente anche dall’utilizzo per i titoli di testa di un font come il pinyon script, che però viene usato anche in chiave antitetica e disturbante dall’horror postmoderno alla Pearl (anche quello con intenti dichiaratamente femministi). O dalla situazione che fa da cornice e da innesco a innumerevoli film di genere, la reunion tra amici in una casa vicino al lago.
E via via a salire di riferimenti: l’approccio alla Get Out in salsa rosa; le suggestioni antropologiche alla Her: i pezzi di ricambio di una M3GAN adulta e le empatie dell’AI spielberghiana. In una contaminazione o, meglio, sfacciata sovrapposizione, d’immaginari, che comprendono anche fenomenologie testosteroniche, evolute bambole gonfiabili, terminator gentili e QI problematici (in fondo la dimensione intellettiva del teen horror). Una sorta di manifesto del film-Frankenstein, con tanto di titolo e sottotitolo per i più sbadati, naturalmente improntato a un ecumenismo estetico-morale che non disturbi nessuno.
Non privo d’interesse però per il suo recondito funzionamento interno, così simile ai meccanismi di apprendimento dell’intelligenza artificiale (di cui peraltro finisce non a caso per sostenere le ragioni), con questa idea di sceneggiatura addestrata sui testi dell’industria culturale e il modello di machine learning applicato estesamente, financo nei micro-processi di progettazione del set. Il film non lo nasconde e usa, consapevolmente oppure no, il proprio avatar narrativo come interfaccia del proprio software nascoso (chi vedrà il film comprenderà il riferimento).
In definitiva, Companion è un’operazione a due livelli: a un primo, si presenta come una forma sofisticata di pastiche discorsivo a cui manca però ritmo, originalità e, al netto di isolate esplosioni di violenza, vera cattiveria (nonostante il nome di Zach Cregger campeggi nei credits della produzione). Il punto non è che non funzioni a dovere, ma che funziona fin troppo. A un livello più profondo è invece una forma di tutorial riuscito sugli automatismi e i rischi dell’odierna industria del cinema, sempre più implicata dai meccanismi della scrittura automatica e dalle logiche della datificazione delle nuove ICT. Qui il film si fa interessante autodafé. Fosse anche voluto, sarebbe satira ben congegnata.
In dubio pro reo?