Alla terza regia Marco D’Amore prende spunto da Napoli Ferrovia di Ermanno Rea: viaggio tra memorie e inferi di una città che inghiotte e seduce, per un film a tratti confuso, a tratti sopra le righe, in perenne ricerca di un’identità
PHOTO Marco D'Amore in Caracas - Foto Marco Ghidelli
A breve distanza da Nostalgia (2022) di Mario Martone, ecco un altro film che prende spunto da un romanzo di Ermanno Rea. Il film è
Caracas, lo dirige (e interpreta) Marco D'Amore, il testo di partenza è
Napoli Ferrovia dello scrittore partenopeo scomparso nel 2016.
"Il bello della vita è ignorare quello che accadrà domani. Del resto come potremmo riporre speranza nel futuro se lo conoscessimo già?".
Giordano Fonte (Toni Servillo) è uno scrittore che ritorna dopo molti anni nella sua città natale, una Napoli che non riconosce più, che lo inghiotte e lo terrorizza ma che al tempo stesso lo affascina in maniera seducente. Nel suo peregrinare si imbatte in Caracas, un fascista deciso a convertirsi all'Islam, continuamente in cerca di una verità sull'esistenza che non sa trovare e impegnato in un rapporto d'amore impossibile con Yasmina (Lina Camélia Lumbroso), tossicodipendente che tenta in tutti i modi di uscire dalla schiavitù della droga, bella e dannata proprio come la città in cui tutto accade.
Cinque anni dopo l’esordio alla regia con
L’immortale, esperimento crossmediale con il fenomeno seriale
Gomorra, Marco D’Amore dimostra di voler accantonare per sempre la gabbia in cui inevitabilmente il personaggio di Ciro aveva finito per rinchiuderlo: dopo
Napoli magica (2022), documentario realizzato per esplorare l’anima della città, ora con
Caracas torna sì alla finzione ma senza recidere quel cordone ombelicale che lo tiene legato al cuore e alle contraddizioni di una città “abbandonata e sfatta, bellissima. Abusata e sfrontata. Dannata. Napoli non è Napoli, è un barrio sudamericano, una favela brasiliana, una baraccopoli indiana. Eppure tra i vicoli di questa babele, nell’umido delle sue strade, tutti sentono di poter realizzare i sogni e ballare avvinghiati di passione”.
Ma Caracas chi è? Esiste davvero o è semplicemente un personaggio frutto della fantasia di uno scrittore che ha deciso di non scrivere più e, nonostante questo, sta continuando a scrivere? Giocando su questa continua suggestione, D’Amore tenta la via di un film fantasmatico, alternando momenti di estrema violenza (il raid dei fascisti contro la comunità musulmana) ad onirismi vari, restituendo a volte frammenti di quell’immersione avvolgente e asfissiante, a volte situazioni francamente meno riuscite, figlie di un’esagerazione anche formale, con le insistite strimpellate di una chitarra over ad aggravare l’esplosività delle troppe scene madri che si accavallano lungo il percorso.
Percorso che si fa discontinuo e ridondante, a tratti confuso, cammino che si perde tra i dedali di commoventi memorie lontane (il vecchio orfanotrofio dove Giordano Fonte riassapora il ricordo di un’infanzia perduta) e improbabili tarantelle in un ristorante: in questo costante perdersi e ritrovarsi - proprio di una realtà che non sai mai quanto effettivamente reale e quanto figlia di una
ricostruzione letteraria -
Caracas è un film che proprio come il suo personaggio eponimo (che racconta di farsi chiamare così perché natio del Venezuela), è perennemente in cerca di una verità, di un’identità impossibili da trovare.