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Il suo100mo film è giustamente una festa. Festa per i Takashi Miike fanclub, per i patiti del Jidai Geki, prova serissima per stomaci forti.
Il prolifico regista giapponese è l’impresentabile cerimoniere di questa Cannes 70, che bagna fuori concorso con Blade of the Immortal, dall’omonimo manga, officiando a quasi due ore e mezza di pirotecnico grand guignol in epoca di shogunato Tokugawa.
Lo fa intensificando l’elemento coreografico del genere – lo spettacolo del massacro – al punto da farne il vero collante narrativo del film a danno della trama, stavolta ridotta all’osso: un samurai uccide cento uomini da solo per vendicare la sorella ma resta vittima di un maleficio che lo trasforma in una specie di zombie. Anni dopo una bambina verrà a chiedere il suo aiuto per sterminare una scuola di maestri della spada che le aveva fatto fuori padre e madre.
La logica delle vendetta, legge in un mondo regolato dal sacro vincolo della parentela e dal tabù dell’onore, è il classico innesco drammaturgico che Miike rovescia però nella vendetta della logica: tutti hanno qualcosa da “restituire” in un circolo vizioso senza fine, dove vendicatori e vendicati si scambiano continuamente di ruolo.
Miike gioca con i "codici del samurai" esasperandoli e svuotandoli di senso: non c’è patto, parola, onore che tenga. Non è possibile separare l’inferno dal paradiso, il male dal bene. La Storia è sempre insensata carneficina, tutti vittime e tutti carnefici. Ci si può aggrappare alla speranza, finché ci sarà qualcuno disposto ad aiutare qualcun altro senza “un rimborso”, ma non si può fare a meno di calarsi nella lotta.
Paventato il nichilismo, lo si aggira con humor e se non basta lo si raggira dando credito anche alla più spudorata bugia (come quella che conclude beffardamente il film). Insomma la vita va avanti, nonostante i colpi di spade, di asce e di arti che volano. Il regista nipponico ci mette tutta l’allegria del mondo per intrattenere i suoi spettatori. Questa è una festa, ridete mentre parte una mano, cade una testa, si stacca una gamba.
Come un film destinato a ripetersi, in loop, così è il cinema di Miike: ogni volta che provano a smembrarlo, lui lo rifà daccapo. E pazienza se a forza di rimontarlo non sembra più tanto nuovo. Le immagini si nutrono di altre immagini, l’immaginario persiste nella pulsione di un vampiro. E c’è del resto ancora cinema che non sia diventato il proprio Frankenstein? Miike non si fa illusioni, di più: lo celebra.
Se capite il mood vi divertirete, altrove le risposte a bisogni più profondi. Corpi che si disgregano e si ricompongono per l’avidità dei nostri occhi: ecco il nostro surrogato di immortalità. La morte può attendere. E stavolta nemmeno una risata ci seppellirà.