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È una voce preziosa, quella di Salvatore Mereu, battitore libero e ostinato in un cinema – come il nostro – pigramente centralista, che relega i narratori delle periferie nelle comfort zone della riserve regionali, considerando i loro film espressioni di una tradizione locale lontana ed estranea alla contemporaneità.
D’altronde Bentu, il nuovo lavoro di Mereu selezionato alle Giornate degli Autori, è davvero fuori dal tempo – perlomeno dall’attualità – e dentro uno spazio preciso, dove la terra costeggia l’onirico, e chiede allo spettatore di misurarsi con qualcosa d’inusitato e arcaico, in cui il ritmo è dato dall’attesa, dalla pazienza, dal ciclo delle stagioni.
Anche stavolta Mereu parte dalla letteratura, sottolineando anzi rivendicando l’adesione a una terra e al suo immaginario che affonda le radici in un passato che non passa. Dopo Giuseppe Fiori per Sonetàula, Sergio Atzeni per Bellas mariposas e Giulio Angioni per Assandira, tocca a un altro scrittore sardo, Antonio Cossu, autore del racconto all’origine di Bentu, qui adattato nella forma di un poema sospeso, etnografico più che lirico.
Annunciata da una spiegazione sull’importanza del grano e del vento in Sardegna, è una favola illuminata da un sole cupo, incardinata sul legame tra un anziano, Raffaele, e un bambino, Angelino, e sui rispettivi rapporti con le spighe e la paglia, la terra e gli animali, il tempo che scorre e quello fermo.
Il vecchio dorme in campagna, aspettando che il vento arrivi e lo aiuti a separare finalmente i chicchi dalla paglia, e il ragazzino lo va a trovare, individuando in quell’uomo un mentore: magari un giorno Raffaele gli concederà di cavalcare la puledra, troppo indomita per la poca esperienza del giovane Angelino.
È un film secco e rigoroso, Bentu, ancestrale e denso, limpido nella rinuncia a fronzoli e orpelli, che in poco più di un’ora capace di raccontare, tra scelte e mancanze, due vite isolate e sole; e in cui il “personaggio” convocato nel titolo si fa presenza e assenza, promessa di futuro e compagnia inquietante.
C’è qualcosa della poetica di Ermanno Olmi in questo cinema radicato nella sua tradizione locale eppure universale per la teoria di temi toccati: un racconto di formazione in cui i protagonisti sembrano modellarsi a partire dal paesaggio naturale, funzioni di un discorso che valica i confini e si fonda su figure eterne quali apprendistato e iniziazione.
La scelta di farne un lungometraggio è forse discutibile e non sempre paga, però Mereu, lo sappiamo, è capace di vitalità che hanno pochi eguali nel panorama italiano: giusto dieci anni fa era a Venezia con quello che resta il suo capolavoro, Bellas mariposas, e Bentu conferma la capacità di lavorare con l’autenticità dei non professionisti, sia il giovanissimo Giovanni Corcu che Peppeddu Cuccu.