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Daniel Gimènez Cacho in Bardo (SeoJu Park/Netflix © 2022)
Dopo cinque premi Oscar e a sette anni da The Revenant, Alejandro G. Iñárritu torna con il nuovo, rutilante film Bardo, False Chronicle of a Handful of Truths: in Concorso a Venezia 79, arriverà su Netflix entro la fine dell'anno.
Scritto da Iñárritu e Nicolás Giacobone (Birdman o L'inaspettata virtù dell'ignoranza e Biutiful), girato in 65 mm e magnificamente fotografato da Darius Khondji, interpretato ottimamente da Daniel Giménez Cacho e Griselda Siciliani, racconta la storia di un famoso giornalista e documentarista messicano, Silverio, che tra vita e mestiere – e arte, complici le divagazioni oniriche, simboliche, iperboliche, sempre immaginifiche del Nostro – riflette su identità e famiglia, ricordi e Storia.
È all’apice del successo, allorché sta per ricevere un premio prestigioso, primo latinoamericano a vincerlo, dai colleghi statunitensi, ma più di qualcosa non va: all’elaborazione del lutto per un figlio, Mateo, vissuto solo trenta ore che condivide con la moglie e gli altri due figli, si accompagna un’erranza febbrile, grottesca, perfino allucinata che passa in rassegna, più che prendere in carico, Hernán Cortés e il giornalismo oggi, i migranti e il rapporto tra Usa e Messico, con Amazon che si appresta a comprare la California del Sud…
Tanta, tantissima, sì, troppa roba, che non sempre il regista sa declinare tra confessione e autoanalisi, straniamento e insight, ma quasi sempre sa imbarcare il grande scomparso dal cinema qui e ora: la trasfigurazione. Che in Silverio ci sia Iñárritu è inconfutabile, al massimo si può discutere quanto e come, però ineludibile, e forse ineluttabile, è che Bardo, già Limbo, è della schiatta degli 8½, creazione e ricreazione per frattali, in cui il dato biografico, personale e intimi ridonda per allitterazioni, antifrasi e, appunto, iperboli.
Se non ogni cosa è illuminata (Cortés, i passaporti, tutto il cotè politico di cui al Nostro palesemente non frega nulla, sicché appare posticcio e incongruo) e si potrebbe, anzi, dovrebbe sfrondare assai di queste tre ore, ci sono sequenze in cui l’eccellenza tecnica trova il lirismo, lo stile il battito: Daniel Giménez Cacho è lucido e folle, totalizzante come e più di Birdman, arrovellato e ritroso, provato ma non domo, aperto e, davvero, umanissimo. Dopo l’incipit in volo, sopra tutto il neonato reinserito nel ventre della madre “perché il mondo è una merda” non ce si scorda, e anche altrove che sia il rincorrersi tra coniugi, il dialogo con il padre e alcune sequenze di ballo Bardo è fatto per rimanere.
Altro discorso è che ci azzecchi con Netflix: be’, poco. Può portare - a partire da Venezia: regia? - qualche premio, dare di sicuro lustro al servizio streaming, ma ancor più di Roma di Alfonso Cuarón è quasi antinomico rispetto al contenitore, a partire dalla fruibilità sulla piattaforma.
È cinema per il cinema, fantasmagorico e caciarone, acuto e smodato, tagliente e fracassone, motivato dall’art pour l’art ma senza consegnarsi all’eccesso di stile, mosso dalla società (dello spettacolo) e approdante oltre le nuvole, librato in aria con le idee per nuovo pantheon.
E c’è un’avvertenza, dal sapore di riconciliazione: glielo dice il padre, al cui cospetto Silverio torna piccino, che “il successo va assaggiato, ma poi si deve risciacquare la bocca e sputare, perché il successo avvelena”. Non è pauperismo né antagonismo d’artista, è troppo furbo Iñárritu perché possa venirci il dubbio, ma imperativo morale senza essere categorico.
Ha fatto film migliori il regista messicano, ma forse non più partecipati: anche di eccedere e sbagliare, certo, però ha (auto)licenza di liberare.