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Barbara
Spingere il gioco sempre più all’estremo e aumentarlo di difficoltà non è una grande idea se il gioco in sé non è divertente. Non deve averlo capito Mathieu Amalric al suo quinto lungometraggio per il cinema, Barbara, che al festival di Cannes di quest’anno ha l’onore di aprire il Certain Regard con una sorta di biopic.
La Barbara del titolo è infatti la cantautrice francese di cui un regista vorrebbe raccontare la vita: il film segue la produzione del film, le riprese, il lavoro dell’attrice che deve interpretarla mentre ne ripercorre la vita, sovrapponendosi a veri filmati d’archivio. In pratica il film nel film nel film nel film: la sceneggiatura di Amalric e Philippe Di Folco si sforza per realizzare un film drammatico, biografico e meta-linguistico, ma non riesce a catturare davvero lo spirito del personaggio.
Il problema è proprio nel meccanismo di partenza: i rimandi continui tra realtà e finzione, la vita che diventa arte, il cinema che replica la vita e via di seguito con tutti i topoi semiologici del caso sono divenuti stantii da un bel po’ e per ravvivarli servirebbe una profondità di sguardo e racconto che Amalric in questo film non mostra. Chi sia o cosa rappresenti davvero Barbara - per il protagonista, per lo stesso Amalric, per la nazione francese di cui la tv e la radio scandiscono la storia - il film non lo dice e non riesce a farlo capire, la regia ha l’andamento pesante di chi gira a vuoto e si affida a una sequela di canzoni che raramente diventano bei pezzi di cinema.
Resta solo il bel lavoro di Jeanne Balibar, che in più di una sequenza è come se interpretasse se stessa alla ricerca del rapporto tra il suo corpo e quello del suo personaggio, lavorando su gesti, pose, inflessioni e mimica. Ma di questa ricerca resta la superficie e Amalric, che sembra aver spesso tutto il suo tempo a dare la caccia allo spirito di una donna, si è dimenticato di provare a catturare anche lo spettatore.