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To Leslie
È costato meno di un milione di dollari, To Leslie (Fuori Concorso ad Alice nella Città), un film che è la quintessenza dell’indie americano per carattere, spirito, forme e parabole, che sembra trovare la sua forza proprio nel budget limitato. L’esempio è già nei titoli di testa: attraverso i dettagli di varie foto, ora eloquenti ora allusive, sulle note di una canzone abbastanza potente come Here I Am di Dolly Parton, veniamo a conoscenza del passato della protagonista, una madre single texana già vittima di violenze domestiche che ha sperperato tutti i soldi di una vincita alla lotteria.
Quando la ritroviamo è completamente allo sbando: perennemente alcolizzata, viene sfrattata di casa e quindi cerca il figlio adolescente e già impegnato come operaio per piazzarsi nel suo appartamento. Le cose non vanno bene e precipitano anche quando torna nel posto in cui è nata e cresciuta. Ma per Leslie, passata da beniamina (i brindisi dopo il jackpot, da cui il titolo) a reietta della comunità (i pettegolezzi attorno al falò, le umiliazioni nelle occasioni pubbliche), esiste ancora la possibilità di una speranza, che forse ha il volto gentile e consumato di un signore al secondo tempo della vita.
Esordio nel lungometraggio del regista televisivo Michael Morris (all’attivo episodi per Better Call Saul, Shameless, Billions), scritto da Ryan Binaco, To Leslie recupera la tradizione del cinema indipendente degli anni Settanta (John Cassavetes naturalmente, ma anche Barbara Loden e Jerry Schatzberg), capitalizza la corrispondenza tra personaggio principale e paesaggio sospeso tra tristezza e abbandono (un Texas di posti decadenti, feste anacronistiche, pub fuori dal tempo), si accorda al battito malinconico del country che riecheggia ovunque (magnifico il momento in cui si sente la super-tematica Are You Sure di Willie Nelson).
È tanto prevedibile nello svolgimento quanto emozionante nei fatti e riesce a costruire un character study che è sia distaccato che sensibile nei confronti di una protagonista alla quale non si fanno sconti. Nel mettere in scena il ciclo della dipendenza, Morris si focalizza sugli aspetti più molesti e squallidi di Leslie senza rinunciare a dare voce alla sua straziante consapevolezza di trovarsi nel baratro: è così che trova un ammirevole equilibrio più autentico che realista, evitando da una parte la riduzione a freak e dall’altra la spettacolarizzazione della vittima.
Il suo sguardo si pone sulla lunghezza di tutti coloro che circondano Leslie: sconfortato come quello dell’ex amica Nancy (Allison Janney), devastato come quello del figlio (Owen Teague), pieno di tenerezza come quello di Sweeney (Marc Maron). Va da sé che la tenuta, la credibilità, la potenza di To Leslie sta tutta nella gigantesca performance di Andrea Riseborough, che dà l’anima e il corpo, l’esplosione del tormento e quel che resta dell’estasi, e si è meritata la prima nomination all’Oscar. Molto contestata: un’astuta campagna elettorale, gestita dalla produzione e sostenuta dalle star (Gwyneth Paltrow, Cate Blanchett, Jane Fonda, Kate Winslet, per citarne alcuni), piena di confronti con le rivali, quindi non proprio regolare per gli standard dell’Academy, che ha avviato un’indagine sulle tattiche di campagna elettorale tramite social media. Un caso di scuola che resterà negli annali e che ha dato visibilità a un film tanto piccolo quanto potente. Con un memorabile finale, tra l’altro.