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La performance di Joaquin Phoenix, corpulento, barbuto, sanguinario e sanguinolento. Totalizzante. Lo score elettronico e intimidatorio di Jonny Greenwood, che fa di contrappunto musicale discernimento poetico: Dio ce lo conservi. E poi, lei, la scozzese di talento Lynne Ramsay, che dopo sei anni di digiuno – ma aveva fatto di peggio – torna alla regia e ci ricorda subito chi è: una signora regista.
Dal romanzo, 2013, di Jonathan Ames, adatta liberamente e inquadra la vendetta e la ricerca di redenzione di Joe, un sicario dannatamente letale e dannatamente disturbato: abusi infantili, FBI e marine, come non essere irrimediabilmente segnato? Il suo ultimo caso lo mette sulle tracce di Nina Votto (Ekaterina Samsonov), una delle tante ragazzine che cerca di affrancare dalla schiavitù sessuale: è figlia di un senatore newyorkese e, capirà ma mano, è una bruttissima faccenda, materia di vita o morte anche per lui.
Che, tra l’altro, tiene pure famiglia: l’anziana madre, con cui si diverte a scimmiottare la scena della doccia di Psycho. Viceversa, lui non è tipo da coltello, ma da martello: se vi vien in mente Old Boy di Park Chan-wook, aggiungete anche Taxi Driver, Il cattivo tenente e alla faccia del titolo You Were Never Really Here, ora A Beautiful Day, è proprio lì che ci troviamo.
Ingredienti aggiuntivi, il marcio multiforme e pervasivo della politica e le ossessioni fantasmatiche di Joe, il quarto lungometraggio della glaswegiana Ramsay – ben fotografato da Thomas Townend – è violento, stilizzato, corporale e fesso, ma anche sballato, errabondo, mai addomesticato. Insomma, un film a testa bassa, che carica come il toro ferito Joaquin: prendere o lascare. Due premi a Cannes 2017, script e Phoenix.