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Mentre tra gli addetti ai lavori ci si chiede se La fille inconnue regalerà la terza Palma d’oro ai Dardenne, accolti stamattina da un caloroso applauso alla fine della proiezione stampa e da qualche isolato buu di disapprovazione, i fratelli belgi riportano il dibattito intorno al film su un piano più alto, soffermandosi sulle ricadute morali e politiche in un Europa divisa sul dramma dell’immigrazione: “C’è un evidente richiamo al perduto senso di responsabilità collettivo nel nostro continente – dichiara Luc, il più giovane, dalla Croisette – e una convinzione precisa, che se le cose andranno meglio lo dovremo alle donne. Le donne, musulmane e non, sentono una responsabilità maggiore rispetto agli uomini. Sono loro il futuro della nostra società”.
L’ennesima eroina della loro filmografia femminista si chiama Jenny, è una giovane dottoressa e prova a scoprire l’identità – e l’omicida – di una donna di colore uccisa a pochi passi dal suo studio. Jenny ne fa una vera e propria missione, motivata da un lacerante senso di colpa per non aver aperto alla vittima che aveva suonato alla porta dell’ambulatorio pochi minuti dopo l’orario di chiusura. L’avesse fatta entrare si sarebbe salvata: “Jenny si prende cura di tutto là dove nessun altro lo fa – continua Luc Dardenne -. La sua perseveranza spingerà gli altri personaggi coinvolti a dire la verità e ad ammettere la propria parte nella morte di questa ragazza”.
Il j’accuse contro una società europea narcotizzata è implicito: “Eppure non volevamo fare alcuna reprimenda o promuovere chissà che causa”, si affrettano a dichiarare all’unisono. E aggiungono: “Un film appartiene allo spettatore. Noi non vogliamo lanciare messaggi. Tutto ciò che c’interessa è Jenny, qualcuno capace di sentirsi ancora responsabile e coinvolta nelle cose. Non stiamo dicendo che devono fare tutti come lei”. Precisa Jean-Paul: “Il legame con gli attacchi di Parigi? Non esageriamo con parallelismi e letture forzate solo per poter parlare d’immigrazione ”. Se proprio un legame bisogna trovarlo, si dovrebbe andare più a fondo, in quelle “terribili immagini di morte” che avrebbero convinto i due cineasti a realizzare film che sono “un inno alla vita”.
“Non ci sono veri e propri mostri – suggerisce la protagonista del film Adèle Haenel -. Penso che inibiamo parte della nostra stessa umanità vivendo in città, dove la miseria ci viene sbattuta in faccia ogni giorno al punto da non vederla più. Il film indica un modo per evitare che tutto ciò accada”.