“C’è in me una parte malinconica, fin da ragazzino sono stato attratto dal blues. La malinconia è in un certo senso creativa, basta che non si trasformi in depressione, perché è tosta superare certi momenti”. Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero Sugar Fornaciari dopo tanti anni di onorata carriera si concede un documentario su di sé: il titolo non ha fantasia, Zucchero Sugar Fornaciari, il docufilm il privilegio dell’introspezione, perché “avevo chiaro che non volevo fosse celebrativo”.

Dopo l’anteprima odierna alla XVIII Festa del Cinema di Roma, arriverà per la regia di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano in 300 sale come evento speciale il 23, 24 e 25 ottobre distribuito da Adler Entertainment.

Il cantautore e musicista è indagato attraverso le sue parole e quelle di colleghi e amici come Bono, Sting, Brian May, Paul Young, Andrea Bocelli, Salmo, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Roberto Baggio, Jack Savoretti, Don Was, Randy Jackson e Corrado Rustici. Grazie agli archivi privati di Zucchero e alle immagini del suo ultimo “World Wild Tour”, si trascende il ritratto di un musicista di successo per toccare i dubbi e le fragilità dell’uomo.

La cui storia parte da Roncocesi, Emilia, dove nasce nel 1955: “Un paesino della bassa emiliana da cui sono stato sradicato e portato in Versilia, dove in effetti non mi sono mai integrato, ma dove ho conosciuto mia moglie e sono nate le mie figlie. Questo sradicamento da mia nonna mi ha fatto soffrire e ancora adesso ho la sensazione di non sentirmi mai a casa”.

Dice Valentina Zanella, “conosciamo la sua musica, non la sua vita privata, perché si è sempre esposto poco anche sui social”, aggiunge Giangiacomo De Stefano: “È una storia che racconta Zucchero dal punto di vista personale, che non è poi tanto staccato dalla sua poetica. Lui cerca casa ovunque nel mondo perché non si trova mai a casa. È la storia di una grande rock star internazionale, ed è una storia anche di grande sofferenza”.

Che trovano sponda nella illustri talking heads, quali Francesco De Gregori che, osserva Zucchero, “ha colto il fatto della tribolazione”. L’indicazione geografica, al netto delo spaesamento, è tipica: “Si parla della provincia emiliana un po’ alla Don Camillo e Peppone, il piccolo mondo di Guareschi, dove c’era don Tagliatella perché era pasciuto”.

E il pendolo è sacra profanaque omnia: “Sono cresciuto andando a suonare l’organo in chiesa perché era l’unico modo per suonare, io non avevo i soldi, ma non suonavo musica da chiesa. Sono cresciuto tra il sacro e il profano. Non ho ancora deciso quale è la strada”.

Una strada che ha incrociato tanti grandi, alcuni dei quali non sono più: “Ho avuto la fortuna di essere molto amico di Pavarotti, con il quale poi ho collaborato. Lui è stato un faro da seguire. Pur planetario, quando tornava a casa giocava a briscola con gli amici di infanzia, parlava in dialetto. A New York si faceva portare il parmigiano, era molto legato alle sue radici. È rimasto genuino, così come Sting e Bono. Per me la genuinità è alla base di tutto”.

Una strada già lunga, e perigliosa: “Mi sono chiesto come ho fatto. Ci vuole costanza e tenacia, ma nel mio caso è stata un’esigenza. Sono partito con l’idea di voler fare il musicista, ma non miravo a essere Elvis Presley, né pensavo che mi avrebbero fatto incidere un disco. I primi anni sono stati duri, bussavo alle porte dei discografici e mi rimandavano a casa. Le ho provate tutte. Fino a che è arrivato il brano Donne. Pur essendoci arrivato penultimo al Festival di Sanremo, le radio continuavano a mandarlo, sicché mi hanno concesso di fare un altro disco”.

Il passato non è una terra straniera, ma l’incredulità balugina: “Come ho fatto? Oltre al talento ci vuole una componente di fortuna. Tra il 1990 e il 1992 ero talmente depresso che solo l’idea di stare meglio mi spaventava. Nonostante questo mi sono capitate cose incredibili: mi ha chiamato Brian May perché si era innamorato di Oro, incenso e birra per partecipare al tributo a Freddie Mercury, scrissi Miserere con Pavarotti, mi chiamò Sting, Senza una donna è nata quasi per caso con me e Paul Young, diventando numero uno in tutto il mondo anche in paesi inimmaginabili. Tutto ciò proprio in un momento in cui stavo malissimo. Ora va molto meglio. Per oggi”.

Il male oscuro ha innescato la peregrinazione: “Ho provato a tornare a Reggio Emilia in campagna dai miei, ma mio padre viveva nel suo mondo: io tornavo alle tre di notte, mio padre voleva alle sei di mattina una mano nei campi. Sono durato una settimana. Quando gli chiesero se gli piacesse la mia musica, rispose che amava il valzer e la mazurca”. Uscire dalla depressione fu impresa improba: “Più erano belle le cose e più mi sentivo solo. Perché se non puoi condividere le cose con chi ami è inutile. Un giorno vidi un vecchio mulino tutto diroccato, e decisi di prenderlo. Era proprio a metà tra Forte dei Marmi e Reggio Emilia, mi sono sentito meno dilaniato. Mi sono ricostruito mettendo a posto la casa, stando con i contadini, mettendo degli animali, andando dai rigattieri a scegliere i mobili, in un paio d’anni stavo già meglio”.

Il futuro è aperto, ma parzialmente già scritto: “A fine marzo partirà il tour in tutta Europa. A fine giugno arriviamo a San Siro, Bologna e poi torniamo in giro per America e Sud America. Il tour si chiama Overdose d’amore e finirà nel 2025”. Il business musicale può attendere: “Prendo spunto da Eric Clapton e da gente che suona, soprattutto ora che la discografia sta soffrendo molto. Per me viene prima il live della strategia del music business. Per me il calendario è sempre aperto”.

Rimane una certezza di Zucchero, ed è amara: “Sono unico in quanto solo”.