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William Friedkin. Foto di Karen Di Paola
Per William Friedkin il cinema era una questione di fede. Lui credeva a ciò che accadeva davanti alla macchina da presa. Non si trattava (solo) di creare una finzione credibile, fotograficamente attendibile, coerente drammaturgicamente. Il nodo cruciale era portare il dispositivo di riproduzione in un territorio inesplorato e quindi indurre lo spettatore a interrogarsi sulla “realtà” di ciò che vedeva sullo schermo in termini di valori morali ed etici. Questa tensione dialettica con la “realtà”, che ovviamente in Friedkin non coincide quasi mai con la “verità” (la realtà non è “vera” per il solo motivo di essere tale…), è anche il motore del principio di piacere del suo cinema. Per giungere a un tale punto di frizione, il regista deve mettere “in pericolo” sé stesso e coloro che lavorano con lui. Solo in situazioni limite può sorgere la domanda sulla realtà e veicolare quella sulla verità.
L’azione non risolutiva
Friedkin ha continuamente fatto del cinema motivato filosoficamente. Da statunitense, ha scelto – pragmaticamente – le aporie dell’agire umano, di conseguenza il punto per eccellenza nel quale saldare la possibilità della solidarietà fra gli uomini. I suoi personaggi, infatti, sono tutti portatori di una fallibilità, finitezza che, calata nel contesto di generi ben identificati, contribuisce ad esaltare la percezione di un mondo instabile nel quale l’azione – cardine del pensiero puritano nordamericano e hollywoodiano – non fornisce più le coordinate per interpretare il mondo.
Le origini “documentarie” sono ben note. Eppure – lungi dall’aderire ai dettami del cinema verità – Friedkin concepisce il documentario come uno spazio interventista, un luogo dove affermare una realtà affermativa, altra. Nello specifico di The People Vs. Paul Crump , convinto dell’innocenza dell’imputato, riesce a salvare la vita al condannato una manciata di ore prima che la sentenza fosse eseguita. Successivamente si sarebbe scoperto che in realtà Crump era responsabile della morte attribuitagli cosa che avrebbe avuto su Friedkin un effetto duraturo e influito sull’impalcatura della prima versione di Rampage , film distribuito in Italia in vhs nella versione originaria dalla Penta ma che Friedkin avrebbe mostrato in una versione fortemente rimontata e favorevole alla pena capitale, a Torino Cinema Giovani.
La verità è il luogo dello scandalo
La verità – sembra asserire Friedkin – è il luogo dello scandalo. Basti riflettere a quanto osservavano alcuni spettatori afroamericani all’uscita de Il braccio violento della legge nel quale vedevano finalmente sullo schermo poliziotti vicini alla loro esperienza quotidiana dell’esercizio della legalità e del monopolio della violenza, e che non temevano di usare epiteti razzisti, ipocritamente rimossi per convenienza sociale dal resto della produzione cinematografica e audiovisiva.
L’altro elemento chiave del cinema friedkiniano, insieme alla realtà e la verità, è il vedere. La notte che inventarono lo spogliarello definito dal compianto Franco La Polla “un capolavoro di struttura, di perfetta costruzione organizzativa”, oltre che essere un omaggio all’epoca del vaudeville, è tutto giocato sull’attrazione dello spostamento dei limiti delle possibilità del vedere.
Nella tensione fra questi tre elementi sorgono i film più celebrati di Friedkin, quelli che da soli riescono a ridefinire le possibilità del cosiddetto “nuovo cinema americano” e della “nuova Hollywood” (che sono due cose ben distinte).
Friedkin, affascinato dal cinema europeo ma consapevole del funzionamento industriale di quello hollywoodiano, ha saputo con grande determinazione spostarne le regole d’ingaggio. Aumentando il coefficiente di realismo, esasperando la tensione morale e amplificando la visceralità dell’esperienza spettatoriale, ha di fatto creato un cinema “mai visto”. In questo senso, la trilogia comprendente Il braccio violento della legge, L’esorcista e Il salario della paura sono l’esemplificazione di un cinema che si offre prima di tutto come esperienza limite. Questa frontalità – rivendicata da una sapienza tecnica e da un’abilità fuori dal comune nell’individuare i collaboratori attraverso i quali dare corpo alla sua visione – è stata per moltissimo tempo anche fonte di terribili incomprensioni e accuse. Quella più banale, rivoltagli negli anni Settanta in Italia e altrove, di un essere un criptofascista e, alla luce de L’esorcista, persino un “agente del Vaticano”.
Il cinema è un atto di Fede
La frontalità del cinema friedkiniano è intimamente legata alla “fede”. Ciò che accade sullo schermo è reale. Deve essere “reale” se ambisce ad avere un impatto sullo sguardo – e quindi sul pensiero – dello spettatore. Solo in questo modo si può attivare un confronto dialettico fra la consapevolezza del film come “finzione” e la sua percezione come “realtà”.
Inevitabilmente è proprio L’esorcista – il film più controverso di Friedkin – il cuore di questa tensione (che in Vivere e morire a Los Angeles sarebbe emerge ancora come l’oscillazione del gioco fra il vero e il falso).
Rivedendo il film, analizzando il prologo iracheno, i numerosi riferimenti metalinguistici, e soprattutto il modo in cui il montaggio di Norman Gay ed Evan A. Lottman sottilmente smonta (piuttosto che conservare unito) il tessuto della realtà, si comprende come Friedkin si premuri di seminare il suo percorso di indizi: creare un film che s’interroga sulla fede e la verità utilizzando le strategie della finzione. Una contraddizione in termini, quasi. La questione del vedere e della fede è riassunta nel tormento di Padre Karras: “Non c’è giorno della mia vita che non mi senta un impostore”. I cani che si lacerano ai piedi di Pazuzu, demone dei venti della mitologia assira sotto gli occhi inconsapevoli di guardie armate (il principio di realtà) evocano il venire meno dell’astratta contrapposizione fra Bene e Male per affermare un venire meno del principio d’individuazione e la fondamentale consustanzialità dei due poli. Friedkin insinua un’instabilità strutturale sia del racconto (lo stacco netto fra i rumori in soffitta e la gru in movimento sul set del film) che delle possibilità dell’immagine. Se il corpo diventa l’immagine della produzione dell’inconscio “lo spazio urbano (…) mostra una normalità che è direttamente proporzionale alla carica di violenza, alienazione, mostruosità che esso cela”.
La complessità de L’esorcista si ritrova nella disperata epica picaresca ed esistenziale de Il salario della paura, l’apice probabilmente, del nuovo cinema hollywoodiano dove Friedkin si spinge ai limiti delle possibilità del set, del dispositivo di riproduzione e della possibilità di sopportazione degli interpreti. Un film assolutamente impossibile da immaginare oggi. I tre elementi (reale, verità e vedere) si compongono con una ferocia insuperata, decantandosi in una dolente lirica sulla finitezza umana. E cosa resta da vedere quando si giunge alla fine di “tutto”? “Tutto” il resto. È una questione di fede. Di cinema.