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Giuseppe Tornatore, Manoel de Oliveira, Theo Angelopoulos, Krzysztof Zanussi, Wim Wenders, Jerzy Stuhr, Zhang Yuan, Aleksandr Sokurov, Daniel Burman, Walter Salles, Mahamat-Saleh Haroun, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Ken Loach, Amos Gitai, Carlo Verdone, Mohsen Makhmalbaf, Andrei Konchalovsky, Gianni Amelio, Liliana Cavani, Lucrecia Martel, Pupi Avati, Alice Rohrwacher, Hirokazu Kore’eda e Mario Martone.
Sono loro i registi che, dal 2000 al 2023, hanno ricevuto il Premio Robert Bresson, riconoscimento che, nel corso della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, viene conferito annualmente dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo ad autori che, con la propria filmografia, abbiano “dato una testimonianza, significativa per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della nostra vita”.
A questi cineasti, ai loro valori etico-estetici e alla loro personale visione del mondo, dell’uomo e del proprio lavoro, nonché alle specifiche motivazioni che ne hanno determinato la premiazione (escluso, per ovvi motivi di tempistica e stampa, Mario Martone) è dedicato il libro di Antonio Capocasale Da mani umane. Storie del premio Robert Bresson (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, pagg. 248, € 14,90; anche in formato ebook).
Il percorso parte, naturalmente, dalla volontà di intitolare il riconoscimento a Bresson (scomparso nel dicembre 1999), da sempre “associato a una stilistica rigorosa, essenziale, antispettacolare e decisamente sottrattiva” e particolarmente caro al mondo cattolico per il rigoroso modo di confrontarsi con temi quali i vincoli della predestinazione, la ricerca di un disegno superiore, l’attrito tra l’anelito al mondo spirituale e i richiami di quello materiale, il tormento della colpa, le problematiche della fede, la sofferenza degli ultimi, la prigionia impietosa del Male e i modi inattesi in cui può invece manifestarsi la Grazia (che, per compiersi, necessita però di piena accettazione). “Che il premio porti il suo nome” sottolinea quindi Capocasale “vuol dire anzitutto riconoscere che il suo cinema assomma in sé e al massimo grado più valori: originalità, ricerca, rigore, controllo attento di mezzi, intensità e integrità espressiva, coerenza, la capacità di pensare incessantemente il proprio linguaggio e le forme, e quella di misurarsi con temi “alti” in modi assolutamente personali, creativi.”
Conferire tale riconoscimento ad altri registi significa dunque considerarli, a tutti gli effetti, dei “bressoniani”? La risposta è no. O meglio: si possono definire “bressoniani” il rigore, la tenacia e il perseguimento di un’autonomia creativa che accomunano i premiati. Per il resto, invece, sebbene in diversi casi le affinità con il maestro francese esistano (e, anzi, talora siano alquanto evidenti), la consegna del Bresson a specifici cineasti vuole piuttosto rimarcare la presenza, nelle loro opere, “di quelle qualità che, a un livello elevato, fanno un autore” (come originalità e coerenza espressiva) e la possibilità “di cogliere nel loro lavoro qualcosa come una ricerca, a livello di temi e di linguaggio, una capacità di interrogarsi – come del resto ha fatto Bresson stesso – e di restituire, in modi diversi, anche qualcosa come il percorso di un’anima in questo mondo, secondo l’espressione che abbiamo usato più sopra, un chiedersi che cosa l’essere al mondo sia, cosa l’umano e il suo vivere”. Il riconoscimento viene dunque assegnato nel nome di “un autore capace di fare del cinema qualcosa di alto, di prezioso, un ‘luogo’ nel quale sia possibile dire, con originalità e onestà espressiva, dell’uomo: qualità che si possono scorgere anche nell’opera dei registi premiati”.
Lo scopo del libro risiede dunque nella volontà di individuare, nel lavoro cinematografico di tante “mani umane” (le stesse su cui Bresson si sofferma nelle sue Note sul cinematografo), una sincera ricerca sul difficile mestiere di vivere, senza mai smettere di interrogarsi se esista qualcosa capace di andare oltre la prospettiva di una quotidianità puramente materiale. Oltre a ripercorrere la storia e le storie di tale riconoscimento, il testo di Capocasale abbraccia la medesima prospettiva che ha portato alla creazione del Bresson (premio ecumenico e, al tempo stesso, laico), concepito come “un atto di comunicazione, una presa di posizione, un modo di far dialogare tra loro i propri orientamenti, la visione del mondo di un autore, e comunità – cinefile o no – più ampie, critica, pubblico, ecc. Ed è un atto di comunicazione che, in quanto riconoscimento pubblico, parla a tutti, e dunque non solo alle comunità di “addetti ai lavori” festivalieri, non al solo mondo cristiano e cattolico più o meno legato al cinema”.
In attesa di scoprire dove lo porteranno le prossime edizioni, il premio Bresson ha già un’eredità da tutelare e da (ri)scoprire, al pari degli autori che ha scelto di valorizzare e far dialogare con il proprio pubblico, oltre i vincoli di una società che ci vuole sempre più sicuri delle nostre idee e disinteressati a quelle altrui. “Rendete visibile quello che, senza di voi, forse non potrebbe mai esser visto” raccomandava Bresson alle nuove generazioni. Non si può certo dire che l’omonimo premio non lo abbia ascoltato e seguito.