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Laura Betti
Aida sta aspettando l’autobus sotto la pioggia, ha una sciarpa che le copre la testa alla bell’e meglio. Arturo la scorge da lontano, la vede accanto ad altre persone. A un certo punto Aida le cade lo scatolone con il Dixan, si abbassa per riprenderlo ma, forse per l’acqua, si sfonda: il detersivo erompe, finisce sul marciapiede, la gente attorno rimane indifferente, lei mormora qualcosa. Arturo è impietosito, per lavoro – fa lo psichiatra – conosce l’arte di legare le persone, ma non muove un dito perché, semplicemente, non prova né stima né affetto per Aida: è la caposala del reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I di Roma, una piccola matrona brutale e incattivita che, se fosse per lei, la legge Basaglia andrebbe eliminata. Quando, esasperata dai metodi del giovane psichiatra, lancia un cane dalla finestra, reo non solo di circolare nel reparto ma anche di aver fatto la pipì accanto a un tavolo, ecco che Aida diventa, per la prima volta, vulnerabile e trema, si avvicina a un armadio, piange senza farsi vedere dagli altri e farfuglia qualcosa, ripetutamente: “Ho le ferie arretrate”.
Sono scene che arrivano da Il grande cocomero, il miglior film di Francesca Archibugi, Arturo è Sergio Castellitto e Aida è Laura Betti. Nel 1993 ha sessantasei anni ma, a vederla bene, la sua figura trascende l’anagrafe, così fuori dal tempo, così aliena al presente. Non è il suo ruolo più celebre ma è esemplare per come ne restituisce corpo e anima, ruvidezza e patetismo, orgoglio e fragilità, paura e desiderio.
Laura Betti è morta il 31 luglio di vent’anni fa ma non è mai stata così viva come ora. È uscito da poco un libro a lei dedicato, Madame Betti dell’amico Renzo Paris, che la celebra come eroina sulfurea, tenera e dura, provinciale bolognese piombata nell’underground romano. Un testo che arriva un decennio dopo Qualcosa di scritto, altro memoir, in cui Emanuele Trevi rievoca il suo incontro con l’attrice all’inizio degli anni Novanta, quando trovò lavoro al Fondo Pier Paolo Pasolini, l’archivio custodito da Laura Betti: non stentiamo a credere che ci fossero corrispondenze tra Aida e l’attrice, “la vedova” del poeta, la testimone di un mondo che stava scomparendo insieme ai suoi abitanti.
Una generazione in disfacimento che torna anche nei ricordi di Luca Guadagnino, che poco più che ventenne conobbe Laura Betti: lui (“con faccia tosta pari alla mia sconfinata presunzione ed arroganza” ha scritto in un articolo per Il Messaggero) le propose una Signorina Else, lei lo chiamava con epiteti irriferibili. Un’amicizia che permise al futuro regista di conoscere “i cardini dell'intellighenzia romana”, di imparare “a sospendere il giudizio e ad essere aperto nei confronti di chiunque”. Fecero anche un film insieme, The Protagonists, ma poi, “come le accadeva spesso dopo un lungo idillio, divenne molto violenta nei miei confronti, forse per gelosia del mio rapporto con Tilda Swinton, forse per altri motivi imperscrutabili”.
Quante sono le grandi personalità del cinema – ma con lei non possiamo limitarci, quindi diremo della cultura tout court – che possono vantare questo credito col futuro? Che non esigono la riscoperta pelosa degli eroi del giorno dopo quanto piuttosto un infinito gioco al rialzo attorno a un’eredità tanto ricca? Fosse pure per l’indole animalesca (in principio fu “la Giaguara”, per il passo felpato) e il carattere incendiario (il libro di Trevi è anche un catalogo degli orrori: “Ci sono pur sempre degli individui che svolgono nella vita dei loro simili un ruolo che non saprei definire meglio che catastrofico”), Laura Betti ha lasciato tracce indelebili.
Va da sé che le cose più precise su di lei le abbia scritte Pasolini, che la considerava “una tragica Marlene, una vera Garbo”: “non era ambigua, anzi, era tutta d’un pezzo: inarticolata come un fossile… ha aderito alla sua qualità reale di fossile, e infatti si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda… c’è una che adora e c’è ‘un’altra’ che sputa sull’oggetto adorato, ‘una’ che mitizza e ‘un’altra’ che riduce”.
La morte dell’amico la segna: “Ci fu un giorno in cui il sole si macchiò di sangue e tutti i giorni, da allora, si chiamarono 2-11-1975 […]. Poi mi portarono il corpo del mio uomo e lo stesero sulla mia tavola. […] Questo corpo era, appunto, a pezzi, sbranato, divorato. Mi misero in mano ago e filo per insegnarmi a ricucirlo. Capii che per uccidere ‘loro’ avrei dovuto infilarmi dentro, ricucito, il mio uomo, affinché potesse parlarmi in segreto e spiegarmi. Ecco perché decisi – insieme a lui, come sempre – di non accettare, di disobbedire, di dare scandalo, di denunciare cosa può accadere ad un uomo pulito ‘in un paese orribilmente sporco’” (sono parole riportate da Sabina Corsaro in un articolo che potete leggere qui).
Teorema (che le valse la Coppa Volpi), certo, e I racconti di Canterbury, ovvio, e poi Edipo re e La ricotta: ma si può raccontare Betti senza Pasolini? Si può, si deve, anche perché il cinema di Betti – e non con Betti – è eruttivo e irregolare e la sua presenza è talmente potente da rischiare di cannibalizzare i film stessi. Per Marco Bellocchio – che tuttora sostiene che il meglio lo desse quando non esagerava – ha dato una personale versione della figura materna che ossessiona il suo cinema, da Nel nome del padre in cui è talmente invadente e nevrastenica da rendere il figlio incapace di ucciderla nonostante i proiettili a Il gabbiano dove la leggiadra protagonista cechoviana diventa opprimente e soffocante, c’è Sbatti il mostro in prima pagina che ce la restituisce vittima d’amore, fiancheggiatrice per romanticismo.
La sua è una galleria di memorabili antieroine e bastarde senza gloria, tra visioni d’autore e divagazioni pop, evasioni dal realismo e concessioni grottesche: c’è l’indimenticabile Regina di Novecento, la fascista più feroce e spietata mai vista sul grande schermo (il gioco degli sposini è agghiacciante), e c’è la frustrata e dura padrona di casa de Il piccolo Archimede, ma ci sono anche tanti altri baluginii.
Non è strano che la sua presenza così anticonformista e disturbante sia finita nei cori di tanti period drama, da Fatti di gente perbene a Con gli occhi chiusi fino a Marianna Ucrìa e Il mondo nuovo che la vede soprano in fuga (e come suora era imbattibile, da La ribelle a Renzo e Lucia) Così com’era naturale vederla nei generi più imprevedibili, dal giallo (in Reazione a catena legge i tarocchi, ha presagi di morte e crepa decapitata; in Caramelle da uno sconosciuto è una prostituta che la sa lunga) e l’erotico (l’oscena governante di Vizi privati, pubbliche virtù) al mélo d’appendice (in Sepolta viva è la stregonesca e derisa Giovanna la Pazza) e alla commedia on the road (la centralinista di Viaggio con Anita), fino ai film civili (l’enigmatica funzionaria di banca in Un eroe borghese) e quelli più bizzarri (clamorosa la sua apparizione in Mamma Ebe, ma in fondo pure quella in Tutta colpa del Paradiso), andando spesso oltralpe (chiamata da Agnès Varda, Straub e Huillet, Catherine Breillat, Noemi Loevsky e tanti altri) e diventando un talismano per i registi più giovani che l’amavano (i camei con Guadagnino ma anche I cammelli, La felicità non costa niente, Raul – Diritto di uccidere in cui fa la strozzina) e regista lei stessa (ovviamente per Pasolini, La ragione di un sogno: custode, testimone, ancella della memoria fino all’ultimo). Fu (anche) cantante (i dischi con Piero Umiliani e da Kurt Weil) e scrittrice (Teta velata), fu tante cose e tutte insieme, sempre irriducibilmente se stessa. Laura Betti non va riscoperta: è lei che ci scopre ogni volta.