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Laure Calamy in Mon inséparable
In Ciascuno a suo modo, Pirandello scriveva: “Sapete che cosa significa amare l'umanità? Soltanto questo: essere contenti di noi stessi. Quando uno è contento di sé stesso, ama l'umanità”. Ma che cosa succede quando si perde questa umanità? Ci si spegne, si fallisce nella ricerca di senso.
Per Sant’Agostino “la morte non è niente. Sono solamente passato dall'altra parte: è come se fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora”. Non svanisce l’essenza, ma bisogna curare l’anima, in una realtà sempre più violenta.
Per Papa Francesco “la guerra stessa è una negazione dell’umanità”, come la distruzione dell’ambiente, l’intolleranza, la paura, l’individualismo tossico. Quest’anno l’inseguimento dell’utopia (dal “Qui non muore nessuno” di Campo di battaglia ai balli disperati del Joker interpretato da Phoenix) è stato al centro dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Il tema complementare, il cardine della riflessione, è la perdita dell’umanità.
È ciò che veicola il XXVIII Tertio Millennio Film Fest – TMFF, il festival del dialogo interreligioso che si svolge a Roma dall’11 al 16 novembre al Cinema delle Provincie. Viene affrontato nelle sue varie espressioni dai film in concorso e dalla retrospettiva, dedicata a Cristian Mungiu (presente al Festival), la voce contemporanea più importante del cinema rumeno, impegnato nel racconto di una nazione, nel dissezionare il presente per sviscerare la natura dell’essere umano. Il ritratto che emerge dai suoi film è agrodolce, carico di passione ma velato di pessimismo. È un cinema in cui l’ostacolo si fa compromesso, per costruire una nuova identità nei tormenti del contemporaneo.
Pensiamo al finale di Animali selvatici, al levarsi degli orsi (ma lo saranno davvero?) in mezzo alla foresta. Quello è il momento di contatto tra uomo e natura, di invito al silenzio dopo le parate per le strade e i comizi. La fragilità dell’umano si fonde con il dramma morale, scuotendo le coscienze per evitare che i sogni di rinnovamento siano soffocati.
A essere sotto scacco è anche la famiglia, la genitorialità. L’essere madre è un elemento ricorrente nei titoli del TMFF. Iniziamo con un piccolo colpo di fulmine: Vittoria di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, presentato anche al Lido in Orizzonti Extra. È sospeso tra finzione e documentario, parla del desiderio irrefrenabile di una madre di tre figli di adottare un quarto bambino, anche se può mettere in crisi gli equilibri di ogni giorno. Da una parte la maternità desiderata, che sfocia nell’adozione, nel viaggio verso l’Est Europa. Dall’altra la nemesi, l’aborto. In 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu si analizza l’interruzione della gravidanza, il trauma. Il percorso cinematografico si unisce ai chiaroscuri, alle imposizioni, alla progressiva discesa verso l’abisso.
Ma l’incubo scaturisce anche dagli scenari geopolitici che si specchiano nell’esistenza di persone comuni. La madre della protagonista di Of Dogs and Men, del regista israeliano Dani Rosenberg, è stata rapita da Hamas, è una figura fantasmatica che la accompagna. Siamo nel kibbuz Niz Or, al confine con Gaza, subito dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre. Dar, una sedicenne sopravvissuta all’attacco, vaga in mezzo ai superstiti, i suoi cari sono tra gli ostaggi. Cerca il suo cane e assiste i randagi, a cui sente di appartenere. Si assiste a una solitudine generazionale, sospesa tra chi invoca l’atomica e chi si oppone allo sterminio messo in atto da Netanyahu. Lo sguardo è politico, l’intento pacifista.
La tragedia del conflitto cambia continente nel documentario Songs of Slow Burning Earth di Olha Zhurba, dove a tuonare sono le armi. Qui non c’è più spazio per i sentimenti, l’unico obiettivo è sopravvivere. A colpire sono gli occhi spenti dei più piccoli, mentre cercano di ripararsi dai bombardamenti russi. Lo “scontro” è anche il fulcro di Lost Country di Vladimir Perisic. Qui la contrapposizione scaturisce dall’ideologia, tra una donna legata al vecchio regime nella Jugoslavia di Milošević e il figlio schierato con l’opposizione. La maternità è la vera minaccia. Quando la protagonista persegue una linea di frattura, il giovane rischia di essere espulso dalla propria realtà, di perdere i suoi amici. Ancora una volta si dipinge una quotidianità destrutturata, in costante tensione, in cui la vittima è l’umano.
Proprio come in Mon Inséparable di Anne-Sophie Bailly, interpretato da Laure Calamy, ormai baluardo della periferia sullo schermo. In questo caso Calamy non deve più raggiungere il centro di Parigi a tutta velocità (Full Time – Al cento per cento), ma ha il compito di prendersi cura di un ragazzo diversamente abile. Lui un giorno si innamora, e desidera diventare padre. La sfida è quindi spingersi oltre il limite precostituito. L’obiettivo è “recuperare l’umano”, riscoprirsi umani. Vengono in mente i famosi versi di Khalil Gibran: “I vostri figli non sono figli vostri. Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa. Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi. E sebbene stiano con voi, non vi appartengono”. La liturgia si mescola ad aspetti più laici, con una richiesta di aiuto che però è sempre verso l’alto. Per far fluire la luce, e per essere un monito verso rapporti che possono sviluppare venature morbose.
Il mio compleanno di Christian Filippi porta sullo schermo una maternità a tratti eccessiva. Riccardino, ormai adolescente, abbandona la comunità che lo ha ospitato per anni e fa di tutto per ricongiungersi con la madre. La dicotomia è tra genitori biologici e putativi, ma anche sugli eccessi di chi non vuole che i figli spicchino il volo.
Un’altra fase dell’esistenza è scandagliata nel doc Madame Hoffman di Sébastien Lifshitz. La protagonista è un’infermiera vicina alla pensione, che si è sempre dedicata agli altri. Aiuta anche la mamma malata, è a stretto contatto con chi è terminale. Combatte insieme ai colleghi contro la mancanza di risorse e attrezzature che consentirebbero una migliore situazione sanitaria. Vorrebbe però ricavarsi del tempo, dello spazio. A tornare è quella ricerca di sé stessi, che permette di trovare il proprio posto nel mondo. E infine sfocia nell’incredibile.
Si può privare un prete della fede? È la domanda che si pone Paternel di Ronan Tronchot. Un parroco rivede una sua vecchia fiamma (precedente alla tonaca), che gli rivela l’inaspettato: insieme hanno un figlio. Lui si rivolge anche al Papa pur di rimanere un uomo devoto al suo gregge e ugualmente un padre. Dov’è la perdita dell’umano? Forse nella scelta stessa. Come si può quindi rappresentare il sacro? Immergersi nel tanto dibattuto delinearsi dell’Imago Dei? Può aiutarci Paul Schrader con Il trascendente nel cinema. Parafrasando: bisogna andare oltre l’immanente, avendo consapevolezza di ciò che ci circonda. Superata l’esperienza dei sensi, compresa la “perdita dell’umano”, l’unico modo è sostenersi in un dialogo comune, per poi alimentare un’armonia tra vita e arte.