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Ilary Blasi e Francesco Totti (Webphoto)
Non è l’anatomia di una caduta e non è una versione romana di scene da un matrimonio, Unica, l’intervista esclusiva a Ilary Blasi che Netflix ha confezionato come un documentario completamente allineato ai suoi standard (costruzioni delle inquadrature, montaggio d’impatto, fotografia patinata). Non racconta niente di nuovo ma mette in scena un punto di vista, quello dell’ex moglie di Francesco Totti, che finora si era ridotto a pochi interventi, tra la goffa difesa dal gossip in salotti amici (Verissimo, gestito dall’amica Silvia Toffanin) e qualche efficace storia su Instagram (la frecciatina di fronte al negozio della Rolex).
In superficie, la cosa più simile a Unica è l’intervista che la già principessa Diana rilasciò alla BBC nel 1995: la concessione mediatica di “una verità” (“la mia”, dice chiaramente, con tutto ciò che ne consegue), il ruolo di parenti influenti (lì il fratello di Diana, che poi si scoprì essere stato raggirato giornalista Martin Bashir per accrescerne il risentimento verso la Casa Reale; qui la sorella, colei che fa conoscere i due e ora protegge Ilary puntellandone ogni dichiarazione), l’attenzione del pubblico (perfetto l’inserimento di Michele Masneri come unico “esterno”: un giornalista intellettuale che rivela quanto sia trasversale la curiosità sui fatti di casa Totti).
Eppure Unica – che nel titolo riprende la dichiarazione d’amore di Totti (la maglietta “6 unica” esposta a un derby) – ha poco a che fare con quello scoop televisivo che si riverbera nella società: esito di un verosimile accordo tra l’ufficio stampa della conduttrice e la piattaforma, il “contenuto” non ha l’obiettivo di dirci qualcosa in più di quel che non sappiamo o intuiamo, ma di offrirci l’angolazione di colei che non ci sta a farsi descrivere come traditrice e manipolatrice da una stampa compiacente all’ottavo re di Roma.
Più di Totti, nel mirino di Blasi sembra esserci soprattutto il mondo schieratosi accanto al divo Francesco: i quotidiani che danno voce al dolore del campione, i tabloid che non pubblicano le foto che ne scalfiscono l’immagine di maschio tradito, gli articoli che la definiscono “ex letterina” per sminuirla, i tassisti che giustificano l’uomo che se ha cercato gioie altrove un motivo ci sarà.
Ilary sceglie di diffondersi in 180 paesi (ma i milioni di abbonati di Netflix pesano quanto la popolazione di Roma, “omertosa e pettegola”?), mette subito in chiaro una sua colpa (la “bugia bianca” su un caffè con uno sconosciuto è un modo per farsi forte della vulnerabilità), sfiletta con classe (“il calcio mi annoia” e uno pensa alla rivale in tribuna che deve dimostrarsi interessata alle partite), dispensa fragilità (lacrime tra i sorrisi, confessioni sulla mancanza di fiducia, riflessioni sugli errori nella gestione della crisi), si fa personaggio da Vanzina (le confessioni sull’investigatore privato e su un’auto sbandata, le chiacchiere con le amiche: “te sembro una russa?”), allude sapendo di non poter dire troppo (come ci informa un cartello finale, il procedimento di separazione è ancora in corso).
È un prodotto che ha evidentemente l’obiettivo di imporsi nel dibattito e fare rumore sui social, che rivela quanto negli ultimi tempi gli originali italiani Netflix che funzionano di più sono i non-fiction (Wanna, Il caso Alex Schwazer, Il principe: convergenze tra mass media e true crime), e che nasconde quello che è un film più interessante: Totti e Ilary per raccontare l’estetica di una stagione incastonata tra l’ultima sbornia edonista e l’avvento dei social, la centralità della televisione e l’ossessione del calcio, la favola tamarra e la soap pubblica.
A suo modo costituisce un’ipotetica trilogia: Speravo de morì prima, una serie che tentava di costruire una mitologia popolare in cui Ilary è complice; Mi chiamo Francesco Totti, un documentario che eternava l’icona del campione del popolo, in cui Ilary è ancillare; e Unica, un incrocio tra doc, reel e confessione, in cui Ilary distrugge il mito.