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Nosferatu (Webphoto)
estratto da Friedrich Wilhelm Murnau. L'arte di evocare fantasmi di Andrea Minuz (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, p. 190, 12,90 €)
Nosferatu fu tra i primi grandi successi di Murnau e ancora oggi possiamo considerarlo come il suo film più celebre, un’opera il cui fascino indiscusso si rinnova presso il pubblico di ogni epoca. È soprattutto in seguito all’“adozione” di questo film (e via via di tutta l’opera di Murnau) da parte del gruppo dei giovani critici dei «Cahiers du Cinéma» che, a partire dagli anni Cinquanta, il suo cinema entra in una feconda fase di riscoperta critica e rivisitazione storiografica dopo che, con la sua morte, era sostanzialmente caduto nell’oblio.
In Nosferatu d’altronde sono presenti alcuni temi che, pure in una filmografia così refrattaria a una lettura omogenea, sono considerabili come delle costanti del cinema di Murnau. Troviamo qui sviluppati innanzitutto l’elaborazione di un modello di figurazione e un lavoro sulla costruzione degli spazi che segnano in modo decisivo la sua idea di messa in scena, così come si realizzerà poi nei più ambiziosi progetti concretizzati per l’UFA o a Hollywood. Ma anche l’attenzione al motivo dello sguardo e ai modi di soggettivazione delle immagini, emergono già in tutta la loro importanza nell’economia complessiva della messa in scena.
Come ricorda Eisner: «Le storie del cinema non cessano di ripeterci che Dupont è stato l’unico in Varieté, a essere capace di filmare una scena come se fosse vista dall’attore, collocando la macchina da presa sopra la sua spalla. Però Murnau non ha avuto nessun bisogno della lezione di Dupont: già in Nosferatu la macchina da presa, e quindi lo spettatore, vede con gli occhi del folle che si aggrappa al tetto le piccole forme fluttuanti che si agitano per il vicolo» (Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo).
Il libero adattamento dal Dracula di Bram Stoker diventa inoltre l’occasione per rileggere il tema del doppio e le atmosfere oscure e minacciose care al cinema tedesco di quegli anni, alla luce di un orizzonte figurativo più complesso in cui confluiscono le soluzioni luministiche del cinema scandinavo e le suggestioni della pittura romantica di Caspar David Friedrich.
In Nosferatu, l’orizzonte allucinatorio e inquieto dell’Espressionismo si fonde invece con le figurazioni del paesaggio e il sentimento conturbante della natura. È allora attorno a questa duplicità (l’ombra e il doppio da un lato, l’infinita mutevolezza della natura, dall’altro) che si può rintracciare uno dei primi motivi di fondo del cinema di Murnau. Sul conflitto definibile un po’ semplicisticamente come l’opposizione tra Naturalismo e Espressionismo, è interamente costruito secondo Dudley Andrew un film come Aurora, un’opera in cui tutti gli elementi (dalla costruzione narrativa, alla messa in scena, dall’illuminazione alla recitazione degli attori) concorrono a sviluppare questa dicotomia, come il motivo stesso della struttura drammaturgica del testo che si presenta nella coabitazione di due stili di regia e due modelli di cinema. Ed è attorno all’idea di uno stile molteplice, o sarebbe più corretto dire scisso nel suo doppio, che può essere anche ricondotto Nosferatu.
Nosferatu, vale a dire, non è soltanto una delle più importanti opere del cinema tedesco degli anni Venti, o il primo film sui vampiri della storia del cinema cui ancora oggi si guarda come all’archetipo di ogni adattamento cinematografico del Dracula di Bram Stoker. Esso è anche una delle più evidenti dimostrazioni dell’eclettismo stilistico di Murnau e della sua capacità di raccontare storie sospese tra il reale e il fantastico rielaborando in modo personale sia la lezione del Naturalismo scandinavo che le suggestioni dell’Espressionismo, entrambi riletti infine alla luce di una sensibilità visiva impregnata di elementi romantici e di fascinazione per il sovrannaturale, in cui l’eco della pittura di Friedrich o di Böcklin si fonde con gli accenti mistici del Romanticismo di Novalis o di Franz Marc.
Un film, come recita la pubblicità dell’epoca, «erotico, occultista, spiritista e metafisico». Il lavoro sulla messa in scena allestita da Grau e Murnau, compone immagini attraverso cui il piano del reale si riorganizza nelle forme simboliche per lo più provenienti dalla pittura, ma in generale guardando a quell’orizzonte fantasmatico e allucinatorio che si realizza nella natura. Senza cioè che l’artificio, la deformazione del visibile o vari processi irrealizzanti intenzionalmente esibiti nella messa in scena, abbiano il sopravvento sulla dimensione indexicale dell’immagine filmica. Si veda ad esempio l’uso della pellicola in negativo nel segmento in cui, come una presenza spettrale, compare la carrozza che attraversa la foresta. Pur evidenziando il carattere di traccia fantasmatica dell’immagine filmica, questo processo non implica qui nessuna disgregazione della forma, nessuna distorsione degli oggetti cara al principio della stilizzazione espressionista.
È un cambiamento della luce in cui scivolano le immagini, i corpi, le forme, e semmai una iscrizione del tema del doppio e del volto nascosto delle cose, all’interno del processo di registrazione del visibile dell’immagine filmica. Proprio il discorso relativo a Nosferatu ci permette di chiarire meglio questo punto richiamandoci esplicitamente – con Jean Douchet – all’idea di un reale vampirizzato: «Murnau fu certamente il maestro del vampirismo. E questo non è forse al cuore stesso del meccanismo cinematografico? La ripresa raccoglie e cattura la luce del giorno, che la proiezione rimanda in luce notturna. Il reale vampirizzato dalla pellicola non è più che un fantasma sullo schermo. Questa riflessione sull’arte, che si manifesta in Murnau a partire dai primi film, trova compimento nell’adattamento di Dracula. Nosferatu rivela e libera le fonti d’ispirazione del cineasta: il romanticismo tedesco sempre vivo, la paura interiore e occulta di una forza estranea, parassitaria, che si sente prendere possesso dell’essere e nutrirsene (specificatamente, per Murnau, il profondo senso di colpa per la sua omosessualità); e infine l’esteriorizzazione di questa paura» (Douchet, La ville tentaculaire, in AA.VV., Cités-Cines, tr. it. in O. Caldiron - S. Lucci - L. Marzo (a cura di), Cineamerica 1919-1929. Alle fonti del mito).
Non è un caso che alcuni critici abbiano interpretato Nosferatu in una prospettiva metalinguistica, vale a dire nei termini di un film sul potere perturbante del cinema. Sulla scia del Dracula di Stoker, metafora della paura dei cambiamenti legati alla modernità, anche la lotta dell’ombra e della luce in Nosferatu, e la stessa impalpabile figura del Principe delle Tenebre, incrociano il processo di reificazione della tecnica. Le inquietudini più recondite dell’uomo diventano insomma lo specchio e l’allegoria della sua alienazione contemporanea.
In modo simile l’idea di vampirismo di cui parla Douchet rimanda dunque al lavoro che la macchina da presa compie nei confronti del profilmico, sia che esso venga allestito in studio, sia che si configuri nelle forme del paesaggio e nella natura delle riprese in esterno. In seconda battuta il vampirismo assume le forme vicarie di precisi personaggi all’interno del mondo diegetico costruito e sviluppato dal racconto del film. Il conte Orlok in Nosferatu, Tartufo che “vampirizza” Orgone, Mefistofele in Faust o la “donna di città” in Aurora, per citare i casi più emblematici. Ma anche – sempre pensando a Nosferatu – il vampirismo è un fenomeno interno alla natura e non fuori dal suo orizzonte; non è una mostruosità che la natura esclude, ma un fenomeno che essa porta dentro di sé.
Pensiamo alla celebre sequenza, costruita nel modo di un interludio autonomo nel film, in cui il professore paracelsiano sottolinea come nello stato di natura siano presenti delle pratiche non lontane dall’orizzonte dei vampiri e dei fantasmi (mentre il film ci mostra le immagini ravvicinate di un polipo etereo, quasi fantasmatico nella sua trasparenza, e soprattutto la conturbante pianta carnivora definita nel commento «una pianta che agisce come un vampiro»). Questo stesso ruolo, in modo altrettanto esplicito, può essere svolto dagli spazi della metropoli. Può cioè identificarsi con il progresso, con il ritmo frenetico e alienante della vita urbana e dei suoi spietati ingranaggi, come ci mostrano sia Fantasma che L’ultimo uomo, o in maniera esemplare i film americani di Murnau costruiti sul conflitto città-campagna come Aurora e City Girl. Conflitto che spesso viene rifigurato nelle forme dell’attraversamento, dello scorrere di uno spazio nell’altro.
Il viaggio compiuto dal giovane Hutter fino ai Carpazi, nel castello del conte Orlok, per concludere l’atto di compravendita con cui quest’ultimo verrà ad abitare in una casa nel paese di Wisborg, è quasi l’archetipo di quei passaggi su cui sono costruiti molti film di Murnau (dalla città alla campagna, dalle tenebre alla luce, dai luoghi familiari all’inquietante estraneità della terra dei fantasmi). Questi confini vengono continuamente incrinati, scivolano gradualmente uno nell’altro secondo un sistema di produzione illusiva altamente formalizzato che trova, nel sistema delle congiunzioni virtuali degli spazi che abbiamo visto prima, una sua prima importante soluzione di regia.
Ma anche la composizione luministica della scena che scolpisce i volumi plastici del quadro e il lavoro di montaggio del senso più ampio della sua capacità organizzativa degli spazi, risentono di questa volontà di sfumare il confine tra percezione, immaginazione e visione interiore, cosicché in Murnau, e specificatamente in Nosferatu, «tutte le componenti visive sono immerse in un’atmosfera cromatica, segnata da un lento, graduale chiaroscuro, un trascolorare dal nero alle tonalità del grigio. E il montaggio opera nella prospettiva del potenziamento della visione, della rivelazione e della contemplazione delle configurazioni visive. Favorendo semmai una dilatazione del visibile che permetta una percezione prolungata del quadro» (Paolo Bertetto, Il cinema espressionista e la forma dell’immaginario).