A cosa serve il Dylar, il misterioso farmaco fuori commercio da cui è dipendente la coprotagonista di Rumore bianco? A sconfiggere la paura della morte. Noah Baumbach, il regista del film d’apertura di Venezia 79, rilegge Don DeLillo, l’autore del capolavoro postmoderno, alla luce oscura della pandemia, connotando allegoricamente una storia ambientata negli anni Ottanta. E, sì, oggi non possiamo non vedere nel Dylar il segno del nostro desiderio di liberarci dal dolore.

Ci siamo ancora dentro, in questo tempo funesto (il Covid, le guerre, i cambiamenti climatici), e ci sentiamo così impreparati – come scriveva Aldo Busi nell’incipit di Seminario sulla gioventù – a guardare alle angosce “come mondi talmente lontani da noi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato”. E molti dei titoli della selezione ufficiale di questo festival si interrogano proprio su cosa resta del dolore, su come sopravvivere al trauma.

Lo mette subito in chiaro Alejandro González Iñárritu, che nell’autobiografico Bardo si muove su due piani: da una parte, la tragedia nazionale, con il passato del martoriato popolo messicano che si riverbera nei soprusi quotidiani del presente; dall’altra, il dramma privato, che si apre con un bambino che sceglie di rientrare nel ventre, procede senza mai eludere un cordone infinito e raggiunge il picco emotivo con un bagnetto che è un ritorno a quell’incipit. L’elaborazione di un lutto lancinante trova una dimensione poetica che si fa strada nell’ipertrofia generale, credendo fortemente che il ripensamento creativo di un fatto personale possa costituire una risposta alle domande irrisolte del pubblico.

Qualcosa che accade anche nel fantasmatico The Eternal Daughter di Joanna Hogg, dove il legame è ribaltato nonché fuso (la stessa attrice, Tilda Swinton, interpreta sia la madre che la figlia) ma l’istanza è la stessa: con quali prospettive affrontare la scomparsa di una persona cara? Può l’arte offrire una possibilità di trasfigurare un dolore personale in occasione di catarsi collettiva?

Tilda Swinton in The Eternal Daughter
Tilda Swinton in The Eternal Daughter
Tilda Swinton in The Eternal Daughter

Oltre che in Bardo, l’acqua come elemento dove si toccano vita e morte torna in Love Life di Kōji Fukada, con i genitori (biologici e non) che adottano gli strumenti di una semiotica del cuore per abituarsi a convivere con qualcosa di inaccettabile. E un figlio che, da un momento all’altro, esce dalla nostra vita e ci chiede, da lontano, di fare i conti con la sua ingombrante assenza, abita anche Saint-Omer di Alice Diop, una rigorosa e inquietante storia di infanticidio con una terrificante Medea che guarda negli abissi delle nostre rimozioni.

E in The Son di Florian Zeller, che evidentemente ci prepara all’inevitabile (se nascondi una pistola in casa, quella pistola prima o poi sarà usata) per arrivare a un finale in cui il confronto con quello shock è ancora fuori portata. Tutti e tre, a differenza di Iñárritu, lavorano sul non far vedere l’evento, Fukada concentrandosi sullo spazio circostante, Diop delegando l’orrore alla parola, Zeller affidandosi al suono. Così come Jafar Panahi, un autore che nei limiti dell’agibilità sa dominare le immagini: Gli orsi non esistono ma esiste la morte, come spauracchio e monito, in primo piano e in campo lungo.

Il tema appare urgente (citiamo lo scontro fratricida di Athena di Romain Gavras, il compianto sul fratello morto di Pour la France di Rachid Hamy, la paranoia post-traumatica in Beyond the Wall di Vahid Jalilvand, l’indagine sul defunto in A Man di Kei Ishikawa), anche in quanto annuncio per prepararsi alla fine: Monica di Andrea Pallaoro e Ljuksemburg, Ljuksemburg di Antonio Lukich raccontano gli ultimi giorni dei genitori dei rispettivi protagonisti; The Whale di Darren Aronofsky è un uomo obeso che ha deciso di non farsi aiutare dai medici; Bones and All di Luca Guadagnino ha una tematica (il cannibalismo, altra allegoria) che non può non postulare un epilogo tragico; e Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh puntella una parabola sul peccato della disperazione con l’eco delle esplosioni belliche sull’altra sponda.

Hugh Jackman in The Son
Hugh Jackman in The Son
Hugh Jackman in The Son

Ma come mai il lutto s’addice a questa Venezia? Forse perché, più che negli ultimi due anni, nella settantanovesima edizione della Mostra ci siamo confrontati con i film realizzati durante la pandemia e con il loro precipitato di sofferenza e spaesamento. Produzioni spesso girate in ambienti piccoli, con pochi personaggi, dove il trauma del mondo si rispecchia nella ricerca personale per non cedere all’annichilimento, in cui è l’atto creativo a costituire uno strumento di comprensione dell’inaccettabile.

Il Dylar non permette di convivere con la paura ma serve solo a plasmare una dipendenza, come fa un altro farmaco presente in un film di Venezia 79: attorno alla denuncia dell’oppioide che ha portato a un’epidemia di morti per overdose si sviluppa All The Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, che forse ha vinto il Leone d’Oro proprio perché indica una promessa di vita nell’espressione artistica, nella militanza civile, nell’esercizio della memoria, nella celebrazione dello stare insieme.

La scoperta di un senso, una speranza che si rintraccia anche in uno degli ultimi film visti al Lido, Chiara di Susanna Nicchiarelli, che si chiude con Le cose più rare di Cosmo: “Ci nasconderemo nel profumo del mare/ Ci ritroveremo nei dettagli più belli/ Ci riscopriremo nelle cose più rare/ E sarà superfluo non saperlo spiegare/ Al tramonto, di tutto, potremo capire/ Sopravvivere dentro ad un tratto di colore/ Nei suoni più caldi scomparirà il dolore/ Poi forse un giorno ci rincontreremo…”.