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The Frost
Profili di montagne innevate in dissolvenza gotico-scifi: la panoramica stringe rapidamente sul mix tra un campo base stile Everest e un improbabile insediamento militare dove alcuni personaggi intorno al fuoco si scambiano frasi del tipo “mi passi la coda?”, alludendo ad una porzione di carne ghiacciata che uno di loro mastica come fosse la sua stessa lingua. Stacchi e inquadrature sospesi in bilico tra tempo diegetico e traduzione filmica, congelati in una polverizzazione di glitch evoluti ed irreali, ci trascinano dentro le imperfezioni compiute di una estetica anomala e intrigante, terra di nessuno di una rappresentazione per molti versi inedita.
Così inizia The Frost, primo cortometraggio IA di una qualche consistenza realizzato da Waymark istruendo DALL-E2, modello open AI che genera immagini da testi, con il copione di Josh Rubin. DALL-E2 è omologo di GPT-3, in termini di sviluppo. I fotogrammi così ottenuti sono stati animati con D-ID, altro tool IA. The Frost è una traduzione del dogma su cui si fondano il digitale e il suo prodotto più destabilizzante, le IA: tutto è scrittura. Che si produca video, scultura, statistica, pittura, architettura, letteratura, musica, non fa differenza: comunque, ciò che si fa è scrivere, redistribuendo in orizzontale qualunque tensione verticale.
Nella landa sconfinata di frammenti che nutrono l’apprendimento delle intelligenze artificiali, le cui regole non sono prevedibili perché non seguono gerarchie estetiche o morali, si vanno delineando prassi autoreferenziali talmente fluide da impedire cristallizzazioni di contenuto durature. La nuova realtà riporta il processo estetico cognitivo to the scratch, al punto zero di una scrittura onnicomprensiva e incomprensibile, accessibile ed autonoma. In millenni di riflessioni filosofiche, politiche e spirituali abbiamo sviluppato una attitudine etica del senso come magnete imprescindibile intorno a cui si aggrega il reale.
Nel nuovo mondo, prodotto di infinite sintassi generate per proliferazione compulsiva il significato si identificherà sempre più univocamente con l'evoluzione dei modelli stocastici implementata dalle stesse IA che ne sono il risultato. Nulla a che fare con esperimenti come la musica stocastica di Xenakis le cui pratiche probabilistiche erano al servizio di un intendimento innovativo ma in ogni caso inscritto nell'alveo della tradizione consolidata. La realizzazione di un'opera cinematografica è scandita da spazi, cronologie, metodi distinti e cooperanti al risultato finale, sceneggiatura, storyboard, girato, montaggio, audio, titoli e quant'altro.
Nella pratica analogica sono tutte operazioni eterogenee, secondo il criterio di realtà per cui vediamo di un marmo il marmo e non gli atomi che lo costituiscono. Se osservo un busto greco il mio apprezzamento estetico va alle forme apparenti, quelle che percepisco, non alle sue architetture molecolari blindate nei meandri enigmatici della materia. Con il digitale è diverso: la natura intima di un'opera e del mezzo con cui la realizzo è accessibile come la sua apparenza, mimesi dell'analogico. Posso editare una fotografia e scolpire una scultura scrivendo codice o facendolo scrivere alle IA proprio come utilizzando i tool dell'applicazione (anch'essi frutto di scrittura). Un baratro che la apparente semplificazione apre sul possibile ripensamento di telaio e procedure estetiche.
Con le IA posso produrre un film come The Frost senza abbandonare mai l'unico presidio digitale. La contiguità omogenea delle varie operazioni (tutte scrittura) rivela una sostanziale equivalenza fenomenologica tra le parti. Riprendere come sceneggiare, disegnare storyboard come comporre musica. Una montagna, una parola, una slitta sono ontologicamente simili a tutto ciò che posso immaginare, universo in costante oscillazione tra esistenza e assenza. In questo contesto il fuoco ad acqua nel bicchiere di suoni che un pollo estrae col becco da un motore a scoppio tropicale non è un romantico automatismo surreale, solo un incidente statistico tra gli infiniti possibili, tutti privi di intenzione e necessità semantiche.
Lo scossone estetico di The Frost, sia pur primordiale, non si può cogliere con le categorie esistenti. Le emozioni che genera, un certo disagio ad esempio, sono nostro riflesso, non appartengono al congegno estetico dell'opera, a una didascalia morale o ad un costrutto teoretico. Personaggi, suoni, interazioni, dichiarano una monodimensionalità costitutiva spiazzante, non esistono secondo i criteri della fenomenologia classica. Sono scritti di una scrittura ibrida e volatile. Un mondo di affioramenti in cui scoprire non sarà mai più il punto guadagnato di una conoscenza rinnovata ma l’effetto transitorio di un meccanismo inarrestabile, essenzialmente cieco al senso di sorta.
Sono scritto, dunque non sono. Ripenserei così un Cartesio reloaded, alla prima alba di questo armageddon binario esaltante e minaccioso, Ulisse senza rotta per il quale Itaca, Circe, i maiali, Polifemo, andata e ritorno sono la stessa cosa, sfida alla nostra intelligenza, occasione unica per reinventare il mondo.