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Laggiù qualcuno mi ama
“Il suo cinema mi piace tantissimo, sin da quando ero ragazzo: proprio il cinema di Troisi, i suoi film, è qualcosa che va oltre l’attore e il comico. È stata l’occasione questa di poter fare il film con Massimo che non abbiamo fatto: quando ci siamo conosciuti, stimati, voluti bene, aleggiava l’idea di fare un film insieme”.
Mario Martone porta al 73° Festival di Berlino e dal 23 febbraio – con anteprime il 19 nel 70° anniversario della nascita – il documentario Laggiù qualcuno mi ama, dedicato al genio di San Giorgio a Cremano.
Un viaggio personale di Martone nel cinema di Troisi, compiuto montando le scene dei suoi film, da Ricomincio da tre a Non ci resta che piangere, indagando la temperie degli anni e della città, Napoli, in cui si è formato, consultando artisti che lo hanno amato, come Francesco Piccolo, Paolo Sorrentino, Ficarra e Picone, critici che lo hanno studiato, come Goffredo Fofi e la rivista Sentieri selvaggi, e due, Michael Radford e Roberto Perpignani, tra gli artefici della sua opera postuma: “Rivedere Il postino mi ha colpito molto. Massimo era appena morto quando lo vidi, sul set c’era Anna Bonaiuto che faceva la moglie di Noiret e all’epoca io stavo con lei… insomma, mi era impossibile vederlo dal punto di vista emotivo. Rivedendolo, mi è sembrato il punto di arrivo della poetica di Massimo”.
Stupisce subito nel docufilm il parallelo tra Troisi e Truffaut che Martone postula “nei temi e nella forma. Era libero il suo cinema, tant’è che il suo primo film, Ricomincio da tre, in un momento in cui poteva avere qualunque sceneggiatore italiano lo scrive con la ragazza di cui si era innamorato, una torinese proveniente dai movimenti, Anna Pavignano, con cui ho lavorato a questo documentario. Basterebbe questo, il suo cinema non veniva valutato a pieno, e gli dispiaceva, perché si pensava fosse non ordinato, mentre le divagazioni sono il suo sale stilistico, la bellezza”.
Con Pavignano il regista indaga i processi creativi da cui i film del Nostro scaturivano: “Chi aveva mai visto queste donne forti, reali nel cinema italiano? E accanto a loro un uomo fragile, che tali donne fanno evolvere. Questa cosa è importante socialmente, ha fatto evolvere generazione napoletani, meridionali e non solo, che hanno visto come un altro tipo di relazione tra uomo e donna fosse possibile”.
“Ombra metafisica” gli ascrive Giuseppe Bertolucci nel doc, e “la fragilità di Troisi – prosegue Martone - era anche fisica, amava l’impegno di Pasolini ma diceva ‘ci vuole anche il fisico’ per reggerlo… Ma è stranissimo e bellissimo come la fragilità che esprimeva divenisse potenza, qualcosa in cui le persone si identificavano: liberava spettatori e spettatrici dalla questione di essere forti, risolti. Non aveva paura a mostrare tutto questo, e lo stesso valeva per la malattia: Massimo metteva in scena la sua umanità all’interno di un rigore formale, di un pensiero sempre molto controllato”.
Con licenza, ancora, di stupire: “Quando il critico Federico Chiacchiari parla di Andrea Pazienza mi è sembrato bellissimo, non ci avevo mai pensato. Condividevano la dolcezza, Andrea e Massimo, che poi però il fumettista declinava con la forza ribelle che conosciamo”.
Altro tema fondamentale di Laggiù qualcuno mi ama è il rapporto con Napoli, la città che Martone e Troisi hanno in comune: “Massimo puoi leggerlo all’interno della tradizione napoletana, nel senso che si tramanda mettendola a morte e non imitandola: rivoluzionarla, questo fa Troisi”.
Se “rispetto ai luoghi comuni su Napoli, Massimo si sentiva scomodo”, spiega il regista, “c’è anche da dire che questi due grandi temi del suo cinema, il discorso sull’amore, un miraggio, e dall’altro lato questa città che se ne va via sotto i piedi, affondano entrambi nel disagio esistenziale. Profondo e universale”.
Proprio qui risiede forse la ragione ultima, l’innesco creativo di Laggiù qualcuno mi ama: “Quello di Troisi è il rapporto con una città che ti crea inquietudini, e non stupisce: era un cineasta estremamente complesso. Ci faceva piacere reciprocamente questa inquietudine, questo comune sentirsi un po’ disappartenere da un lato e dall’altro appartenere in maniera totale a Napoli”.