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Giuseppe Tornatore
“Non rivedevo il documentario da almeno quarant’anni. Mi ha fatto un certo effetto. Ci ho ritrovato tutti i difetti dovuti all’irruenza della passione giovanile. Ho avuto il grande privilegio di fare in tempo a vivere un clima culturale che forse non conosceremo mai: Guttuso che con Picasso aveva un rapporto fertile, uno scambio di creatività. Guttuso che dialoga con Buttitta, Sciascia, Vittorini, Carlo Levi. Un’epoca in cui la tessitura di figure straordinarie ha determinato un’epoca di grande attività creativa. Oggi è diverso, abbiamo a disposizione mezzi che rendono facili ma vuoti gli incontri. Prima erano rapporti fatti di lettere, appuntamenti, rapporti umani completamente diversi”.
Giuseppe Tornatore arriva al Taormina Film Festival per presentare in dialogo con la regista Costanza Quatriglio Diario di Guttuso, il documentario televisivo realizzato per la Rai Sicilia nel 1982 e dedicato ad uno spaccato di vita del celebre pittore isolano.
“Fare un documentario, con le dovute eccezioni, significa compiere un atto di libertà. La parola doc non mette paura ai produttori, la parola film sì, film in costume ancora di più”, dice il regista che ha ricostruito la genesi del Diario tra ricordi e tanti aneddoti: “Ho girato il doc in due giorni. Il terzo giorno lo usai per riprendere i dettagli. All’epoca la Rai di Palermo offriva per una troupe un cameramen specializzato in riprese e un fonico. Ma tutti i programmi televisivi regionali erano girati con la camera a spalla, cosa che a me non piaceva affatto. Non c’era mai il girato a macchina fissa, eppure nel magazzino dei mezzi tecnici trovai una decina di cavalletti bellissimi, mai usati. Chiesi di poterli usare. Mi dissero che non era previsto nei compiti della troupe. Allora mi sono preso il cavalletto e me lo sono portato da solo. Un giorno, uscendo da casa di Ignazio Buttitta, la troupe mi precedeva per andare alla chiesa. Io dovevo andare in macchina con Guttuso, ero imbarazzato. Non volevo portarmi il cavalletto. Guttuso capì tutto. Mi disse: ‘Lo sai perché sono un bravo pittore? Perché se mi danno da verniciare una porta la faccio meglio di chiunque altro’. Fu così che portai con me il cavalletto nella macchina con Guttuso”.
“Ho fatto il doc quando Guttuso compì 70 anni, – continua a ricordare Tornatore - mi disse che avere settant’anni significa avere meno tempo. Oggi che ne ho 68, mi colpisce questa frase. In un’epoca in cui il tempo più rapido, più sfuggente, hai la sensazione che ce ne sia sempre di meno”. Ma, precisa il regista, "non so se mi ritengo uno del Novecento, o uno degli inizi del Millennio, sono a cavallo delle due epoche. Ho fatto a tempo a sentire il profumo di quell’epoca e il profumo di questa, per non usare un altro termine”.
Tra i due periodi, però, si è aperta una spaccatura soprattutto nel ruolo che l’intellettuale riveste nei confronti della società e della politica. Per il cineasta “nell'epoca di Guttuso era normalissimo che le arti figurative, la poesia, la letteratura, l’atto creativo fosse in sé stesso politico. Oggi fare politica significa sapere con chi ti schieri stasera guardando in tv i personaggi che sfilano, sapendo che forse domani sera ti schiererai con qualcun altro. Oggi la politica è più povera. Quelle figure avevano avuto conflitti anche laceranti, amicizie fatti di scambi culturali, poi talvolta inciampavano in scontri ideologici che li rendevano ancora più sofferti. Oggi anche le liti sono più facili: basta urlare in televisione, o mandare un tweet senza preoccuparsi dell’influenza che può avere sul contesto. Loro, invece, si preoccupavano sempre che tutto questo potesse avere un’eco presso gli altri”.
Politica che all’epoca non poteva essere scissa dalla ricognizione della realtà, dalla ricerca della Verità. Ma, come nota Tornatore, “Guttuso usava spesso la parola verità e la confrontava con la realtà. Un altro grande personaggio che ho avuto il privilegio di conoscere era Francesco Rosi.. Lui diceva che la verità è una cosa, la realtà è un’altra. Era convinto che facendo film non potesse ricostruire la verità, ma il contesto, la realtà nella quale le possibili verità sono eventualmente nate. Un’artista non può presumere di riprodurre la verità. Guttuso la pensava come Rosi. Oggi Verità e Realtà si confondono”.
Pochi anni dopo il Diario di Guttuso, il regista di Bagheria fece il suo esordio anche in un lungometraggio di finzione insieme ad una serie tv appena restaurata e mai andata in onda: “Quando ho girato Il camorrista, ho fatto sia il film che la serie, all’epoca fu una condizione che accettai pur di fare il film. Non c’era, però, un mondo in cui il racconto seriale poteva avere più diritto di cittadinanza e successo. La grande stagione degli sceneggiati televisivi anni Sessanta si era chiusa da tempo. Il produttore Lombardo, però, pensava che poteva esserci uno spazio per quel racconto”.
Proprio di recente il premio Oscar si è impegnato nella stesura di una nuova serie tv tratta dal suo film più celebre: “Mi hanno proposto di serializzare Nuovo Cinema Paradiso. Era l’idea di un produttore, all’inizio ho reagito orripilato, poi mi ha convinto che potesse essere un prodotto di grande successo. Così mi sono lasciato sedurre, e l’ho scritta. Nel frattempo i partner produttivi internazionali sono cambiati e la cosa si è fermata. Per fortuna”.
Perché le stesse strutture produttive e i modi creativi alla base della serialità odierna sono cambiati. Il premio Oscar: “Dal 1985 in poi sono nate tantissime altre serie. Le piattaforme oggi analizzano in dettaglio la struttura narrativa delle storia, impongono schemi e tempi da rispettare. I custodi di questi schemi - i funzionari delle piattaforme - tendono a sostituirsi al regista e anche allo sceneggiatore. Ma nessuno sa se, applicando queste regole così rigide, il prodotto avrà successo. Finché non si scoprirà un modello perfetto applicabile sempre, ci sarà lavoro per noi sceneggiatori e registi”.
Nel frattempo sono tanti i progetti sulla scrivania di Tornatore, alcuni dei quali, però, non vedranno mai la luce: “Quando mi convinco di un progetto posso andare avanti per anni fino all’evidenza, fino a quando mi rendo conto solo io che credo ancora in quel progetto. Poi ci sono film in cui sei frenato anche dal contesto storico: ho lavorato 17 anni al progetto su Leningrado, poi ho dovuto lasciare perdere. Ci sono storie per le quali sono andato avanti per decenni.”
Esempi luminosi di quella che il regista definisce la “vocazione all’autolesionismo, ma è anche coerenza, quando ti persuadi di una storia e la ami, devi dare tutto. Quando la storia ti persuade per motivi casuali diventa pericoloso, io ho paura delle infatuazioni”.
Non solo la politica e la società, si sono trasformate anche le strutture produttive: "Quando ho cominciato incontravo una sola persona, – continua il retgista – se riuscivi a contagiarla con la storia che avevi in mente, il film partiva. Oggi devi parlare con decine di persone e le devi convincere tutte che il tuo entusiasmo sia giusto. Talvolta le convinci a metà, e il progetto subito arranca. Faccio fatica ad accettare questo mondo. Amare una storia oggi è più complicato”.
A proposito di storie in cantiere, però, Tornatore si lascia andare ad un doppio annuncio: “C’è un documentario che ho appena finito di girare, mi mancano due giorni di riprese, poi comincerò subito a montare. E sto lavorando anche a un film che, invece, speso possa entrare in fase di riprese all’inizio dell’anno prossimo. Io lavoro sempre, ma so che se una storia che scrivo si trasforma per qualche motivo in un film, è un’eccezione”.
E sulla prossima esperienza da giurato al Festival di Venezia 2024 dice: “Da ragazzo era normale per me vedere due tre film al giorno, adesso non ce la faccio più, ma questa giuria è come l’invito a tornare al luna park per un bambino che non ci andava da tanto tempo. Sono sicuro che Barbera e i collaboratori selezioneranno film importanti”.