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Cantando sotto la pioggia
Invasione dell’ultracorpo: quando il cinema ha aperto la bocca e le ha dato fiato. L’arrivo del sonoro nella cinematografia trova elezione nella voce, non tanto nel commento musicale, cosa presente già “fuori” dallo schermo al tempo del cinema muto (muto, appunto, non silenzioso), né tanto meno nei rumori ambientali, semplice e didascalica intromissione del realismo nella pellicola. La voce comporta la proiezione opposta, e una terza dimensione, rispetto a quella piatta – schiacciata, meglio – della rappresentazione visiva: ecco che l’attore – con la voce – si sporge verso lo spettatore. L’intimo sentimento dell’interprete si manifesta attraverso questa nuova vibrazione corporale che si plasticizza oltre la visibile gestualità muscolare, articolare, epidermica.
Con l’ingresso della voce è finalmente restituito il valore integrale alla bocca. Col muto non era importante capire, ma neanche intuire, a quali parole corrispondessero i labiali degli attori, potevano essere pure casuali; s’attendeva – quando la battuta era fondamentale alla comprensione dell’azione – la didascalia. E lì non appariva il parlante, appariva solo la parola. Così che si era spinti, come in ogni atto immaginativo che l’arte deve stimolare, a farsi un’idea delle intonazioni, della pasta vocale, dei volumi intesi dal personaggio. A che voce, d’acchito, corrisponde la didascalia del muto? Alla nostra, certo. La lettura è sempre vocale, non si può leggere senza che risuonino i fonemi in testa. In ogni caso il tempo del cartello era il tempo dell’immaginazione (la “nostra” scena).
Ma poi il cinema ha iniziato a dire tutto, a volte troppo, anche persino raddoppiando le voci in campo (si doppia non soltanto in una lingua diversa, ma l’attore spesso si ri-dice con la voce sua medesima in missaggio). La voce ha portato allora nel cinema ulteriore realismo (finalmente, si poteva osservare, un elemento espressivo che proviene da dentro il corpo dell’interprete mentre il suddetto corpo sta lì, incorniciato, e non si sa da dove arrivi) che il doppiaggio in altre lingue potrebbe salvificamente sporcare. Cosa vogliono coloro i quali preferiscono, talora lo esigono, assistere al film in lingua originale? Normalmente – salvo gli oro-nevrotici che hanno bisogno di vedere la coincidenza tra ciò che viene pronunciato e le labbra – lo fanno per un paio di motivi fonici: ascoltare la voce vera di quell’attore, la grana timbrica che corrisponde a quel corpo; sentire la fonetica della pronuncia originale, ascoltare la lingua, e – per i più intellettuali – la parola. Vogliono langue, parole, significanti e significati originalissimi…
Tutto vero, troppo vero. Pochi i casi di uso esclusivo di voce pura, non compromessa con la sua fonte, e però che bella la voce acusmatica, quella di un narratore per esempio, così atavica, forse divina! La voce al telefono, la segreteria… Al cinema funzionano benissimo. L’uso della voce è d’altronde l’unico modo che un personaggio assente ha per apparire quale corpo vivo, non come traccia (lasciata per esempio da segni grafico-visuali come lettere, disegni, brani di corpo: lì la lingua è morta).
Hal 9000 – un occhio che comunica dicendo, non mostrando – è una voce che muore, si distorce e si squaglia, quando viene disattivato. Meno ancora le occasioni di fonia assoluta, senza parola. La voce è tanto incisiva quanto meno è articolata: non ci interessa se e come Tarzan parli, ma senza urlo non è Tarzan. E che dire della voce (e seco la parola) soltanto ipotizzata, mai pronunciata? Suona sempre ad alto volume.