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Paola Cortellesi in C'è ancora domani (foto di Claudio Iannone)
Sorprende come in tanti siano impermaliti – o, al contrario, ammirati – dell’uso della musica “fuori tempo” nel cinema. Un esempio emblematico è quello già (sic) celebre di C’è ancora domani. Qualcuno si lagna del fatto che le canzoni moderne inserite nella colonna sonora siano spurie e quindi arbitrarie nella narrazione; qualcun altro apprezza lo spiazzamento che questo procura. Beh, c’è appunto da rimanere stupiti di fronte a tanta ingenuità.
La musica per film giammai è “a tempo”. Non lo sarebbe neanche se si scegliesse una musica coeva all’epoca in cui il film è ambientato (il repertorio settecentesco in Barry Lyndon, per dire). E non banalmente perché ci sia uno slittamento temporale tra, per esempio, una musica scritta oggi e un peplum colossale o – viceversa – tra un film ambientato nel futuro e composizioni che nel futuro non possono stare (e neanche prevederlo: per quanto avveniristica, la musica è quella del presente), ma proprio perché l’uso della musica nel cinema ha funzione di sostegno emotivo, non descrittivo. Sicché il suo statuto è quello dell’universalità, dell’atemporalità, piuttosto che della linearità del racconto. Allora non soltanto è giusto il disallineamento, ma è inevitabile. Anche il compositore che scrive la musica per un qualsiasi film non realizza un prodotto contemporaneo alla narrazione. Nel caso suddetto, quello del “capolavoro de’ noantri”, si fa bene a infilare le canzoni più aderenti all’atmosfera che si vuole corroborare; l’arte non è filologia.
Certo, sono pezzi molto amati (da pubblico e regista) ma alla fine Cortellesi non compie un’operazione così diversa da quella – molto furba – di Wim Wenders in Perfect Days (questo sì, capolavoro vero), il quale – ancorché con funzione precipuamente narrativa – sceglie una playlist amata da un pubblico trasversale, sapendo di intercettare in almeno un caso un ganglio emotivo, un ricordo. Eternità della musica. Semmai una certa attenzione si poterebbe porre, nella scelta, a evitare allusioni formali o adiacenze cronologiche. Principiare con la voce di Fiorella Bini, nella Testaccio=Italia del dopoguerra cortellesiano, può essere fuorviante dacché Aprite le finestre è un pezzo di una appena decina d’anni dopo l’ambientazione del film e stilisticamente non così lontano da quel periodo, il che crea inizialmente un lecito dubbio sulla collocazione precisa della vicenda: “suonano gli anni ’50… Ah, ma no, siamo prima”. I più profani, quindi i meno curiosi, potrebbero addirittura ritenere che la canzone faccia parte del repertorio di quell’epoca (rischio crediamo scampato nei casi di Concato, Dalla o Silvestri).
Similmente avviene nel recente Rosalie (che – per inciso – e a dispetto di una sibillina locandina, non è un film sulla fluidità di genere ma sulla relatività dei connotati del genere): l’Agnus dei di Barber (d’aprés il suo noto Adagio) e soprattutto The Lamb di Tavener ci stanno bene come musica corale “da convento”, ma sono pezzi del ’900 inoltrato (il film è ambientato nell’800) e l’inganno è dietro l’angolo, perché ci vuole poco a pensare che sia musica antica oppure odierna ma in stile. Un po’ di destabilizzazione è benvenuta, dovuta, normale (non “geniale” come qualcuno ha professato) e generalmente è sterile e fuori fuoco osservare – meravigliati o infastiditi – che certa musica non sia storicamente pertinente. Se è per questo, non è che negli anni ’40 a Roma la vita fosse in bianco e nero… Solo nel cinema ci si crea la questione della veridicità (in quello neo-neorealista, poi, maggiormente), perché è la forma artistica che più di altre ha cercato di riprodurre il reale, di inscatolarlo, ma cercare la plausibilità nell’arte è un inutile passatempo; forse un errore clamoroso.