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The Substance
“La forma è sostanza”. È una frase stupida (quasi quanto “tutto è relativo”). Se fosse così, non avremmo bisogno di due termini distinti che denotano concetti opposti. A esser vero è che le due sono interdipendenti, che non esistono da sole, quali assolute, bensì proprio l’una in forza dell’altra. The Substance (geniale titolo per un film imperniato sull’apparenza più esteriore) si fonda invece su questa identificazione: il valore personale è interamente informato dall’aspetto fisico. In questo – a parte Titane, cui si viene rimandarti per più di una ragione – il film ha dei punti di contatto financo con Parthenope, quanto meno nell’equivalenza bellezza-giovinezza che implica porte aperte.
Tale idea di forma sostanziale, o sostanza formale, è ancora oggi il tema principale dell’estetica musicale: quanto contenuto sia capace di veicolare un’arte sommamente (per alcuni, esclusivamente) formale quale è la musica. Nei film horror, questa relazione è solitamente molto stretta, e la si produce o per contrasto o per analogia. In entrambi casi l’effetto funziona se si assume che la musica abbia un senso. La canzoncina infantile diventa inquietante se annuncia la presenza dell’assassin* in Profondo rosso. Lì dove si cerca invece congruenza tra suono e orrore, dissonanze e lacerazioni sonore sono l’aspetto più superficiale e impalpabile del “brutto”, inteso come spaventoso.
Nel film di Coralie Fargeat c’è per esempio un rapporto schietto tra la dinamica del suono e l’immagine visiva. Gli scoppi, spesso inopinati, di suono coincidono con dei primissimi piani, uno “zoom” – anche in senso lato, cioè, quale avvicinamento in generale – usato come una manopola del volume virata al massimo. L’intensità del suono coincide con la concentrazione sul dettaglio che diventa gigantesco, eccessivo, ai limiti quindi del disgusto. Quando è troppo e troppo, e ci si tappa naso, occhi, orecchi… Se ci riusciamo (il sovradimensionamento mostruoso sta nel voluminoso cartellone pubblicitario inevitabile allo sguardo della protagonista del film).
Questa estetica dell’inquadratura estremamente approssimata – molto di moda ultimamente – va ben oltre il primo piano contemplativo cui ci aveva abituati Sergio Leone e sta più nell’ottica (è il caso di dirlo) delle esperienze dei social visuali, ove possiamo sempre allargare l’immagine a dismisura con due dita. Siffatta saturazione del campo visivo è un dispositivo fieramente cinematografico, e dunque tecnologico, perché in nessun teatro potremmo mai stare così vicini, nessuna voce e nessuno strumento acustico possono giungerci a tale volume.
Della stessa elaborazione è il tipo di musica (azzeccatissima nell’esacerbare la dance del fitness, che modifica il corpo in modo progressivo, nella sua forma più hard durante la violenta trasmutazione), tutta di sintetizzatori, che offre il film. I sintetizzatori sono gli organi dell’epoca contemporanea; non è affatto un caso che nei primi film dell’orrore o del fantastico l’inquietudine venisse soffiata attraverso le canne di un organo.
Per gli altri generi cinematografici è più difficile connettere la musica all’accadimento narrativo; il massimo che si può fare è – tenuta ferma la persuasione di una qualche capacità comunicativa della musica – rappresentare gli stati emotivi di una scena. Solo per il perturbante – anzi, per il disturbante – si riesce a far coincidere il suono col messaggio. I suoni “brutti”, molesti, angoscianti, sembrano proporre una soluzione a una definizione più contemporanea e universale di bellezza. Ci viene suggerito che la bellezza non sta nella piacevolezza ma nella coerenza. Per farci prendere un colpo – per colpire, ecco lo zoom come uno schiaffo: guarda qui! Non hai margini, non puoi decidere – bisogna alzare il volume.