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Fitzcarraldo
Il grammofono, i dischi e la ripetizione come arte dell’eterno ritorno. Non soltanto la colonna sonora cinematografica si fonda su Leitmotive strutturali, ma la ripetizione quale ritmo vitale sta persino nella forma e nel moto circolare della fonte sonora (prima della musica “liquida”) più ipnotica di sempre. C’è una pletora di film in cui la musica è elemento narrativo centrale, ma abbondano anche quelli in cui l’ascolto è linfatico: si mette un disco e si detta l’atmosfera; ogni volta che si mette un disco, torna quella cosa.
Spirali, vertigini, rotazioni: il mezzo fonografico è plasticizzazione del recupero, del ritorno, della rimessa in circolo. Che la ripetizione sia un modo per fermare il tempo è, per chi a che fare con la musica, una ovvietà; nel cinema questa ricorsività sonora (che coincide anche con l’apparizione della fonte di quel suono, della macchina che lo custodisce) si può usare per raccontare un tempo fermo, per creare flashback senza tornare indietro con la storia. Ciò che si potrebbe fare con un odore o con un sapore, cose però ancora non trasferibili su pellicola (latu sensu, ça va sans dire).
Come racconta l’ultimo film di Maura Delpero, la musica non arriva facilmente alla quota di Vermiglio, negli anni ’40 del secolo scorso. I dischi – come i soldi – sono pochi; uno, massimo due, e quindi è sempre lo stesso Chopin che si può ascoltare, è sempre una tazza di latte con un po’ di pane che tocca mangiare. Non si scopre il nuovo, non è possibile farlo, e quando giungono da Milano le lacche con le vivaldiane Quattro stagioni, sembra amplissima la scelta musicale.
Eppure ogni anno, finché non ci si potrà permettere il lusso (estremamente superfluo per una moglie sempre incinta) di un disco nuovo, di un’opera magari financo più rappresentativa di quella pietra miliare, il maestro ripeterà la medesima lezione agli studenti, i quali invece cambieranno. Il ritrovarsi dell’atteso è inevitabile, d’altra parte, in una comunità e in un’epoca in cui l’unico ritmo possibile è quello delle stagioni (dalle quali, almeno fino al climate change, si sapeva benissimo cosa aspettarsi).
Ancora e ancora Coleman Hawkins, in Regalo di Natale, messo sul piatto durante la pausa di una clamorosa partita di poker, ma già ascoltato per ore in palestra prima dell’incontro e per tutta una vita dagli amici che lo riconoscono perché lo hanno condiviso, e lo ritroveranno pure quindici anni dopo, ai tempi della rivincita. Memorabile, per forza. Rassicurante, anche per lo spettatore.
Così ne La grande abbuffata il tema sensuale e lascivo di un grasso sassofono è ripetuto e ripulito al pianoforte, ma soltanto nella sua versione fonografica suona unto e carnoso come i volgari suoni del pasteggiare. Quel motivo ricorre sempre affinché diventi disgustoso e prima o poi ti uccida. S’arriva fino a una ripetizione autistica, quando – ormai già attraverso un occulto CD – Nanni Moretti, ne La stanza del figlio, insiste sul re-wind per riascoltare (vorrebbe tornare indietro nel tempo, chiaro) sempre gli stessi secondi di una musica già di per sé iterativa.
Il civile e civilizzante grammofono di Fitzcarraldo puntato sulla foresta, contro i tamburi primitivi, prepara a una ripetizione trasformata, quella della musica dal vivo: appuntamento nuovo, ma previsto perché abitudine della cultura dalla quale si proviene. Ecco perché in questo caso, a differenza degli altri, siamo in una ripetizione che ha – almeno nelle intenzioni – slancio vitale invece che rigurgito mortifero. Certo, minacciosa: mai come nell’opera di Herzog il grammofono sembra un’arma, da caricare a manovella. Che si gira, come un film.