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Alfred Hitchcock sul set di Gli uccelli
Bestiari fantastici e come ascoltarli. In
Pepe (Nelson Carlos De Los Santos Arias, 2024) , l’ippopotamo parla lingue lontane; lontane per chi vive in una realtà urbana. Ma soprattutto ha una voce scura, grassa, gorgogliante, quasi spaventosa, che arriva dal profondo. Invero gli ippopotami non si inabissano come gli animali marini, però le acque in cui vivono sono così torbide che anche se si trovano appena sotto il pelo dell’acqua non li si scorge con nettezza. Quando poi sono fermi e solo una porzione del loro poderoso corpo emerge in superficie, possono essere scambiati per pure pietre.L’ippopotamo – che vive tra terra e acqua, realizzandosi nel fango – in una tassonomia di bestie sonore è precisamente la terra, il basso, il minerale, il solido: nella topografia immaginaria – spesso elementale – dei registri musicali, il grave, che sta appunto alle radici, è terragno; l’alto è invece aereo. Per questo gli uccelli stridono, e urlano di soffi quando nell’inquadratura passano veloci. Gli stormi di Hitchcock parlano elettronico e con organizzazione, secondo una strategia compositiva che prima contrappunta e poi sovrasta le urla umane (soprattutto le grida di donne e bambini).
Negli abissi marini i suoni si propagano e vengono percepiti diversamente. Ma se i cetacei emettono suoni anche affascinanti (le balene sono maestose musiciste), rassicuranti o disturbanti a seconda che l’orca sia amica come Willy o assassina come nel film di Michael Anderson, i pesci sono davvero inquietanti nel loro mutismo. Lo squalo è esemplare, giacché tutto il rumore che fa è quello delle imbarcazioni che distrugge o, nei casi più pulp, delle ossa che mastica. Figuriamoci polpi e calamari giganti. In acqua è tutto bolle, flutti, sorda pressione.
Dunque un suono di risulta, di solito anche amplificato. Come il brulicare degli insetti, lo sciamare di pericolose vespe, che corrisponde certamente al crepitio del fuoco (basti pensare alla croccantezza degli entomi giganti calpestati da Indiana Jones). Il formicolare, di per sé poco sonoro, è spesso reso per imitazione, soprattutto impressionistica, non tanto del suono degli insetti ma dell’effetto di un solleticante pullulare che essi procurano, spingendosi fino alla trasfigurazione in musica di un rumore collettivo, come vale per le larve sul soffitto di Suspiria.
Ovviamente comprendere quello che gli animali dicono – che si tratti dei loro versi, della musica o di un oversound fantastico (dal succitato Pepe a Francis il mulo parlante, con tutte le licenze del caso) – è una questione tutta umana. E difficilmente, nel cinema ma non solo, l’animale non è l’alter ego di qualcuno (Vita di Pi insegna). Dopotutto la voce dell’animale è sempre la voce del padrone, e questo lo si sa soprattutto quando si ha a che fare con i comuni pet sounds domestici. Sicuri di aver capito, si pronuncia a voce alta la richiesta che si intuisce l’animale faccia.
Insomma, siamo sempre noi che parliamo, che facciamo parlare, che suoniamo; così gli animali vengono trattati – come ogni oggetto di ripresa, a partire dagli attori – quali strumenti. Alla fine di cosa dicono gli animali non sappiamo granché; la loro lingua è sconosciuta, ne traduciamo le intenzioni, ma non esiste etimologia. Ecco perché trattare i loro versi come musica, come aspetto puramente formale, potendo assegnare il significato soltanto alla loro azione, al movimento, quando si è fortunati allo sguardo. Ci vogliono gli occhi, più che le orecchie, per capirli.