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C’è un antico proverbio che dice: “Il diavolo non gioca mai da solo”. Parla per lui la storia degli ultimi 20 anni, tra terrorismi, genocidi, disastri ambientali e orrori vari. L’uomo è il grande imputato dei mali del mondo, sia quando è egli stesso vittima di cataclismi (il paradigma dell’antropocene) o di pandemie (non siamo stati comunque noi ad avere alterato gli equilibri tra habitat umano e animale?) che l’autore originale di guerre di aggressione. Per non parlare delle crudeltà che dispensiamo ogni giorno, in famiglia, sul lavoro, in tutti gli interstizi malati delle nostre comunità, regni di trafficanti, malfattori, caporali, orchi e barbablù.
Caino, dunque, è tornato. Ammesso se ne sia mai andato, come da punto di domanda del titolo scelto per la ventiseiesima edizione di Tertio Millennio Film Fest, al Cinema Greenwich di Roma dal 14 al 18 novembre: Il ritorno di Caino? La forma dubitativa, voluta dalle comunità religiose che con Cinematografo collaborano al tavolo di progettazione del festival, apre in verità ad altra suggestione, che interroga il modo in cui la cultura secolarizzata banalizza ormai il tema del Male. Come se bastasse personificare, dare al colpevole nome e cognome, pelle e lingua, censo e cultura, a spiegare la gramigna che cresce nel giardino del Bene ed estirparla. È proprio di un’epoca efficientista, orientata al risultato, ridurre la questione a problema eziologico, individuazione/rimozione di cause, risolverla in un’idea di giustizia che non ripara né cicatrizza: recide (l’abisso dei luoghi di detenzione non sono il buco nero della nostra civiltà giuridica ma semmai il loro punto luce: rivelano ciò che siamo).
Caino però continua a tornare e allora c’è più di un difetto nella strategia di contenimento. Come se tutte le teorie finissero prima o poi incagliate nell’irriducibilità discorsiva del proprio oggetto. Ha senso cercare ancora un’origine del Male? Non è forse questo il cul de sac dove si è infilata prima la teodicea – con il suo desinare in apologetica, in un giustificazionismo improvvisamente apparso anacronistico nell’eclissi di Dio dell’età moderna – e poi la filosofia - nel non capire che trattare il Male come oggetto speculativo significava non comprenderlo a fondo? L’imponderabile maligno mette in crisi anche le correnti materialiste, con il marxismo classico geneticamente incapace di assumere dentro il proprio sistema deterministico l’irrazionale, il caotico e il contraddittorio; e quello no-global e anarco-ambientalista totalmente concentrato sugli effetti degli squilibri mondiali, esaurito in un manicheismo di missione, un tic da contro-cultura. La ragione, sosteneva Pareyson, è credibile quando mostra l’incomprensibile.
Val la pena allora tentare un altro approccio, ovvero esplorare e pensare l’esperienza del male nel suo darsi, nelle sue aporie. Una fenomenologia che ne restituisca il nesso con azioni ed emozioni. Pensare “altrimenti” il male vuol dire da un lato tenere insieme tutti i suoi cocci, accettare la complessità non come ostacolo ma come approdo. È il senso del convegno interreligioso propedeutico al festival vero e proprio del 14 novembre, quando nella Chiesa Valdese di Piazza Cavour teologi cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti e induisti condivideranno la ricchezza sapienziale delle proprie tradizioni. Ma è nell’arte, cinematografica nello specifico, che il Male può darsi in una forma non speculativa ma empatica, non metafisica ma misterica.
Delle tante facce che Caino assume nelle opere che compongono il cartellone di Tertio – 11 lungometraggi che verranno giudicati dalla giuria presieduta da Susanna Nicchiarelli e 8 cortometraggi da quella capitanata da Ciro De Caro - non ce n’è una più rappresentativa di altre: il Male non si esaurisce in nessuna delle sue allegorie. Semmai s’impone, ed è significativo, lo scandalo della vittima. Mentre si continua a parlare di fascinazione per i cattivi, questi film “accolgono” il grido degli innocenti. Che si tratti di un urlo che sale al Cielo (The Innocents, Il patto del silenzio), di ribellione morale (La civil, Ariyippu, Autobiography, Victim) o di sacrificio apparentemente inutile (Quei due, Speak No Evil, L’origine du mal), il cinema (meglio se di genere, l’horror preferibilmente) sa ripensare il male come ontologia del bene e mezzo della sacralità della vittima.
Fino all’assurdo di un resiliente assoluto (non è un caso se il Premio Fuoricampo dei tre festival italiani di cinema e religione - TMFF, Religion Today e Popoli e Religioni - viene assegnato quest’anno al biopic su una santa, Chiara della Nicchiarelli). È l’intollerabile violenza, la sofferenza imposta, la morte insensata a innescare processi di identificazione che da emotivi si fanno spirituali, domande di senso che necessitano di essere pensate, riflettute, vagliate.
È l’ulteriorità di Abele nell’eterno tornare di Caino.