Qualcuno lo chiama ancora così, spesso per vezzo tradizionalista: lo sceneggiato. Termine ambiguo, poiché teoricamente si riferisce a una parola sottintesa, romanzo, perché di ciò si trattava: l’adattamento televisivo di un soggetto letterario. Poi, va da sé, in qualche modo bisognava pur chiamarli questi prodotti realizzati per il piccolo schermo, quindi con sceneggiato si cominciò a intendere tutto ciò che non era prosa (la ripresa di uno spettacolo teatrale) o inchiesta (il mare magnum del documentario), con il sottogruppo dei cosiddetti “originali televisivi” ovvero le produzioni scritte direttamente per la fruizione domestica.

A identificarli, una serie di caratteristiche che potremmo definire la variante Rai dello “studio system”: il bianco e nero, il teatro di posa, gli interpreti soprattutto teatrali, l’impianto formativo, la costruzione di un’illusione televisiva. Le cose cambiarono un po’ alla volta: Odissea di Franco Rossi (1968), Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini (1972) e Sandokan di Sergio Sollima (1976) scoprivano gli esterni, gli attori stranieri e sfruttavano la televisione soprattutto per la possibilità di avere tempi più ampi di un film, anticipando l’ondata dei registi di cinema o teatro arruolati dal servizio pubblico per operazioni alte (Cristo si è fermato a Eboli, Francesco Rosi, 1979; Fontamara, Carlo Lizzani, 1980; Verdi, Renato Castellani, 1981) o addirittura gigantesche (Mosè, Gianfranco De Bosio, 1974; Gesù di Nazareth, Franco Zeffirelli, 1977; Marco Polo, Giuliano Montaldo, 1982; Cristoforo Colombo, Alberto Lattuada,1984), in linea con un cambiamento globale sul fronte di un “racconto a puntate” più ambizioso (si vedano i coevi Radici o Olocausto). Senza dimenticare le sperimentazioni di Luca Ronconi, che non si limitò a trasporre il capolavoro teatrale Orlando Furioso (1974) ma si spinse oltre gli schemi, e ovviamente di Michelangelo Antonioni (Il mistero di Oberwald, 1980) e Federico Fellini (Prova d’orchestra, 1979).

Sceneggiato diventò una parola riduttiva, a tratti mortificante, e allora, un po’ alla volta, si passò a usare serial (sequele di tante puntate: in Italia le miniserie familiari venivano chiamate così, per assonanza ai vari Dallas e Dynasty ma in realtà con meno episodi: uno per tutti, ...e la vita continua di Dino Risi, 1984), miniserie, tv movie fino alla sintesi larghissima di fiction. Che, insomma, vuol dire tutto e niente, ma va bene, tant’è che il relativo comparto Rai si chiama tuttora così. A sparigliare fu La piovra (la prima stagione diretta da Damiano Damiani, 1984), qualcosa che sul piccolo schermo non si era mai visto ed esportato in tutto il mondo: a differenza degli sceneggiati, le fiction evitano i silenzi, abbondano in cliffhanger, scelgono facce al di là del talento (il doppiaggio “salvifico”), intrattengono prima di educare (c’entra anche l’ascesa delle emittenti commerciali).

Can Yaman è Sandokan
Can Yaman è Sandokan

Can Yaman è Sandokan

(Erika Kuenka)

D’altro canto, come nota Oreste De Fornari, autorità in materia, “promettono quello che non possono mantenere e rimangono a mezz’aria tra l’illusionismo teatral-televisivo di una volta e quello cinematografico spettacolare”. Ora, di acqua ne è passata sotto i ponti, e la Rai sembra aver trovato una sintesi tra le due eredità. Dello “sceneggiato” ha mantenuto il ricorso alla narrativa, più spesso di consumo (i gialli, spesso virati in commedia, di Maurizio De Giovanni, Diego De Silva, Gabriella Gennisi, Mariolina Venezia: tutti alla ricerca di un nuovo commissario Montalbano, la creatura di Andrea Camilleri il cui successo resterà forse insuperabile) ma anche dalla grande letteratura. È la tradizione di Sandro Bolchi (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita), Anton Giulio Majano e Daniele D’Anza, i maestri della tv classica che hanno formato il pubblico con i romanzi sceneggiati, oggi ibridata da altre esperienze.

Rispetto al passato recente, la produzione è meno intensa (sono lontani gli anni delle biografie dei santi e degli italiani illustri, anche se il servizio pubblico resta lo spazio elettivo per chi vorrebbe costruire un nuovo immaginario nazionale a colpi di miniserie storiche se non agiografiche) ma less is more e la cura su certi prodotti è fuori discussione. È completamente nel solco della tradizione un adattamento come L’amica geniale (Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher, Daniele Luchetti, dal 2018), che fa incrociare il romanzo popolare (bildungsroman, feuilleton, storia d’Italia, tematiche universali) con la prestigiosa confezione di un prodotto HBO (anche se gli esterni ricostruiti evocano il pregevole artigianato degli sceneggiati). Così come Il nome della rosa (Giacomo Battiato, 2019), tentativo non esaltante di riposizionare Umberto Eco, e soprattutto La storia (Francesca Archibugi, 2023), che recupera la lezione umanista di Comencini (che traspose il romanzo di Elsa Morante nel 1986) e fa un’operazione pop (le facce, il pathos) e civile (la memoria, il dialogo con l’attualità).

E se la Rai continua su questa strada (in arrivo il nuovo Sandokani), ecco che anche altre realtà attingono al repertorio letterario e alla narrativa popolare. Sky affida un capolavoro “maledetto” a Valeria Golino sostenendone l’istituzionalizzazione (L’arte della gioia da Goliarda Sapienza) e punta su un giallo su misura di star (Petra di Maria Sole Tognazzi con Paola Cortellesi). Disney+ prende un bestseller e ne fa un kolossal (I leoni di Sicilia). E poi c’è Netflix che più di tutti sembramuoversi nel solco Rai (la generalista sopravvive a tutto), sì adattando romanzi contemporanei come Tutto chiede salvezza, La vita bugiarda degli adulti e Fedeltà, ma soprattutto con l’imminente Il gattopardo, versione deluxe di quel che un tempo si chiamava “romanzo sceneggiato”. C’è qualcosa di nuovo, oggi, anzi d’antico.