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Ambra Angiolini (foto di Karen Di Paola)
Era nata come la cerimonia degli addii, è finita con l’annuncio di un altro giro di giostra. Perché, in fondo, il momento davvero sorprendente della finale della sedicesima edizione di X Factor (vinta, meritatamente, dai Santi Francesi) è stato quando Francesca Michielin ci ha informato che sono aperti i casting per la prossima annata. Più degli ascolti (un po’ meglio dell’anno scorso) o degli inediti (nessuno scossone alle classifiche), hanno contato la fattura dello spettacolo (ha paragoni nel panorama televisivo? No), lo sforzo della comunicazione (alla fine, con molta fatica, qualcosa è uscito dalla bolla, come la presunta attrazione tra il giudice Rkomi e la cantante Beatrice Quinta), lo statuto dei giudici (hanno tutti un lavoro al di là del tavolo).
Quindi, sì, ci sarà un X Factor 17 e forse ci saranno ancora Michielin (conduttrice perfetta perché già vincitrice, perché ancora giovane e non giovanile, perché attratta dai discorsi transmediali) e i quattro giudici. Che, nella serata finale, si sono presi il palco. A partire da Fedez, uno che è stato chiamato a risollevare le sorti del talent e, onestamente, non è che appaia molto interessato alla gara, almeno non come quando battagliava con Mika o Manuel Agnelli. Durante la finale ha cantato il suo nuovo singolo, Crisi di stato: in alto, al centro, con il torso nudo riempito di fondotinta per cancellare i tatuaggi e far emergere la cicatrice sulla pancia (lascito per l’esportazione di un tumore neuroendocrino del pancreas), simbolo di una narrazione incardinata sul dolore da condividere per offrire messaggi di speranza e, non banale, sull’esperienza del lavoro come espiazione e terapia.
Ma a restare impressa nella memoria sarà la performance di Ambra Angiolini, la giudice-coach più sfuggente dell’edizione. Quarantacinque anni all’anagrafe, da trent’anni in pasto al pubblico, figura davvero trasversale per come sa presidiare gli schermi e le immagini (il cinema, la televisione, i social, il gossip, la musica), Ambra sembrava uscire con le ossa rotte dal talent: surclassata dai compagni più spavaldi, picconata da uno scandaletto (l’accusa di aver occupato abusivamente una casa in affitto nonostante il contratto scaduto), tormentata da un privato che torna in battutine e frecciatine. Eppure ad Ambra (quante possono fare a meno del cognome ed essere comunque riconosciute?) sono bastati tre minuti per darci l’idea di cosa rappresenta per la nostra cultura popolare.
Sono i tre minuti di T’appartengo, la hit del 1994 che, sul palco di X Factor, Ambra ha omaggiato, reinventato, stravolto, celebrato per ricordarci quanto la nostalgia resti l’indispensabile cartina di tornasole per salvare il sommerso di di più d’una generazione.
La performance è da manuale. C’è un corpo di ballo gender fluid, tutti di bianco vestito, con pantaloni larghi e top che lasciano scoperti i ventri piatti. Si muovono in modo marziale, come soldati queer, fiamme intermittenti incendiano il palco e la voce di Ambra risuona con calcolato distacco, quasi a voler dimostrare quanto quella canzone possa essere dominata solo da lei. E quando arriva, con top bianco e cravatta nera, fluida e sensuale, sembra una sacerdotessa: in pochi secondi ci rendiamo conto che Ambra sta facendo teoria e pratica del pop.
E ci riesce con un insospettabile e sorprendente trionfo di autocitazione (la necessità del playback diventa il furbissimo mezzo per evocare usi e costumi di Non è la Rai, dove lei è nata) e autoriflessione (il lipsync come strumento di connessione tra il passato della Lolita e il presente dell’icona, con la coreografia elevata a gioco di seduzione e l’arrangiamento contemporaneo a ricordare lo statuto di culto), ipnotizzando il pubblico che c’era all’epoca e quello che ha scoperto la canzone-manifesto solo in anni recenti.
Attraverso l’esibizione di Ambra, Sky segue le istruzioni del mondo Rai: la nostalgia come serbatoio identitario (veicolare l’azione attiva del riconoscersi in un certo immaginario collettivo), spettacolare (un re-branding, una versione “contemporanea”, un auto-omaggio), economico (risparmiare sulla novità, investire sul già noto). E in un talent che vorrebbe costruire le popstar di domani, la giudice-coach meno a fuoco dell’edizione – ma anche la figura di collegamento con la televisione generalista, con il cinema “ufficiale”, con il passato prossimo già remoto – impartisce la lezione definitiva: mai sottovalutare le conseguenze del passato.