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Susanna Nicchiarelli (credits Karen Di Paola)
Susanna Nicchiarelli non sta nella pelle. Lunedì 14 novembre riceverà in Filmoteca Vaticana il premio Fuoricampo per Chiara, il suo ultimo lavoro: “tra i più sentiti”.
È la seconda uscita pubblica del film dopo la prima alla Mostra di Venezia, dove è stato presentato in concorso. Il 7 dicembre arriverà nelle sale, distribuito da Rai Cinema.
Nel mentre, Susanna Nicchiarelli sarà impegnata come presidente di giuria del Tertio Millennio Film Fest, il festival cinematografico del dialogo interreligioso che andrà in scena al cinema Greenwich di Roma dal 14 al 18 novembre. Come la chiusura di un cerchio.
Dopo Nico ed Eleanor Marx, Chiara: che cosa rappresentano queste tre donne per te?
“Per certi versi mi somigliano, per altri versi sono molto diverse da me. Di Nico ed Eleanor Marx mi affascinava il loro lato oscuro: la prima aveva una storia di dipendenza dall’eroina, un rapporto complicato con il figlio. Eleanor aveva invece questa capacità di scegliersi ogni volta gli uomini sbagliati e finiva per suicidarsi, un gesto lontanissimo da me. Delle tre è Chiara quella che ha più punti in comune con me.”
Come mai?
“Ho un fratello più grande di me di 12 anni, con una passione politica trascinante. È stato il mio punto di riferimento. Si chiama Francesco. Quando ho visto Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli, in cui questo ragazzo si spoglia davanti al vescovo, mi sono immaginata mio fratello. Aveva più o meno la stessa età del protagonista. E l’idea di Chiara che, vedendo questo ragazzo, ha voluto seguirlo facendo una scelta politica, di vita e di comunità così radicale, in qualche modo la comprendo e mi emoziona molto”
E che cosa l’accomuna a Nico e Miss Marx?
"L’impressione che in tutte e tre i casi la loro storia non fosse stata raccontata nel modo giusto. Volevo riparare questa ingiustizia. Di Nico, ad esempio, Andy Warhol aveva detto: ‘è diventata una cicciona drogata ed è morta’. Non era vero. Nico, dopo i 40 anni, ha scritto la sua musica più bella. Certo, non era magra come prima e non era più una fotomodella ma si era disintossicata. La storia di Eleanor Marx invece veniva molto sminuita. Ha fatto la fine di madame Bovary, ma la sua vicenda era molto più complessa. Chiara, poi, è stata raccontata come la fidanzata di Francesco, purtroppo anche dal film di Zeffirelli, mentre nel film della Cavani c’è un personaggio più bello, interessante. Ma anche la storiografia ufficiale della Chiesa per molto tempo ce l’ha restituita come una ragazza noiosissima, dedita alla clausura, che usava il cilicio. La vera Chiara è stata “rimossa”. Come la sua Regola, adottata per alcuni anni e poi sostituita da quella Benedettina."
E tu la vera Chiara dove l’hai trovata?
“Nella lettura di Chiara Frugoni e in quello che ci racconta il processo di canonizzazione. Tornando alla domanda di prima, posso dire a posteriori che tutti e tre i biopic sono film sull’identità: ritratti di donne che cercano di essere qualcosa di definito, al di là di quello che gli viene imposto. Nico si ribellava a un’immagine di bellezza, cercava una vita più di contenuto. Voleva essere una musicista e cantare canzoni scritte da lei, non da altri. Voleva prendere il controllo della propria identità. Eleanor si definiva invece in funzione degli uomini che aveva avuto. Chiara, come Nico, voleva assumere il controllo di sé stessa. Con un senso di responsabilità sconosciuto all’altra: per lei è fondamentale dare l’esempio, sulla scorta di quanto stavano facendo i francescani. Solo che a lei non era permesso perché la donna non doveva comparire, il suo corpo era un problema.”
Quanto pesa nella scelta di questi lavori ‘la questione femminile’?
“Molto, ma non nel modo in cui lo si intende generalmente. Il primo corto che ho girato, Il mio piccolo uomo, era la storia di una ragazza che aveva un sogno ricorrente: il suo fidanzato era alto un metro e indossava abiti molto buffi. Aveva un problema a relazionarsi con il suo fidanzato reale perché lo sognava ridicolo, buffo. Il soggetto nasceva da alcuni sogni che facevo io. Fin da quel primo corto ho capito che c’era tutto un mondo femminile che valeva la pena raccontare e che passava dal mio punto di vista. Però non ho mai pensato al femminile come a una questione di bandiera: al riscatto, al femminismo”.
Un femminismo non militante.
“Sono femminista, per carità, ma non è quello. Non ho mai pensato il mio lavoro in chiave di rivendicazione. La cosa che più mi piaceva, fin da quel primo corto, era restituire attraverso di me il modo in cui noi donne vediamo gli uomini. Raccontare gli uomini. Perché anche gli uomini non si raccontano per come sono veramente. Cosmonauta parlava del rapporto con un fratello più grande; Nico con un figlio; Miss Marx con un padre; Chiara con un fratello spirituale. Raccontare, attraverso il femminile, il maschile: questo ho voluto fare. Non a caso è agli uomini della mia vita che mi rivolgo con i miei film, sono i primi spettatori. Ci sono delle cose che voglio dire loro.”
Tu rappresenti un’eccezione in un mondo, quello del cinema, che continua ad avere poche registe donna. Perché?
“Ho avuto l’onore più volte di lavorare alle selezioni del Centro Sperimentale, che è un lavoro bellissimo, e ho constatato che le domande delle ragazze per la regia sono meno del 20 per cento. Partiamo da qui. Dal fatto che le ragazze non considerano la possibilità di diventare autrici. Io non mi sono mai posta il problema ma appartengo a una generazione che ha avuto la fortuna di crescere con una tv ricca di donne: la tv delle ragazze, la Dandini, Avanzi, la Carrà. C’era una presenza importante nei mezzi di comunicazione e non erano solo soubrettes. Oggi ce ne sono poche. Ecco perché è importante andare in giro, visitare le scuole, farsi vedere. Altrimenti le ragazze non pensano ci possa essere una possibilità. Quando decidi di diventare regista decidi di far sentire la tua voce, decidi che la tua storia è importante e merita di essere raccontata. C’è un immaginario costruito in maniera sbagliata anche nel modo in cui le donne vengono raccontate nelle storie. Pensate ai tanti film con personaggi femminili di 30-35 anni che stanno con uomini di 60, senza che la cosa venga tematizzata. Questo fenomeno ha una spiegazione elementare: la carriera degli uomini dura mediamente di più di quella delle donne. Sono poche le attrici che continuano a lavorare dopo i 50, 60 anni con ruoli interessanti. Vedersi rappresentate come se l’arco interessante delle nostre vite fosse dai 25 ai 35 anni è abbastanza significativo. Una ragazza che volesse intraprendere la professione di autrice deve confrontarsi con questo immaginario che non le rappresenta. E ci rinuncia. Poi ci sono difficoltà oggettive: fare dei figli, costruire una famiglia impatta molto di più sulle donne. Inoltre, non siamo mai prese veramente sul serio. Mi ricordo una frase della Rossanda che mi ha sempre colpito: ‘I compagni hanno incominciato ad ascoltarmi quando sono iniziati a spuntarmi i capelli bianchi’. In effetti proviamo un certo sollievo quando arriviamo ai 40. Magari attiriamo di meno però ti ascoltano di più”.
C’è anche una responsabilità delle donne in questo stato di cose?
“Non ne farei una questione di responsabilità, di colpe. Anche i maschi vengono penalizzati dal modo in cui vengono rappresentati. Non è concesso un modo diverso di essere maschi. Lo vedo adesso che ho un figlio maschio: non è facile costruirsi e capire il proprio posto nel mondo. Il tema dell’identità, delle difficoltà ad affermarla, è universale. Non c’è colpa. Sono i rapporti di forza che ereditiamo, che ci ritroviamo già. Tante volte le donne sono più severe con altre donne, lo vedo anche io con mia figlia. Accade perché vogliamo che le donne abbiano la pelle più dura, per prepararle alla lotta.
Quanto le tre donne che hai raccontato hanno subito l’ombra ingombrante di una figura maschile?
“Non è il senso dei miei film. Questi uomini per queste donne sono stati importanti. Karl Marx è quello che ha fatto studiare la figlia. Senza di lui sarebbe andata a scuola di ricamo alla fine dell’Ottocento. Francesco ha dato a Chiara il coraggio di fare quello che ha fatto. Per non dire di quanto il figlio amasse Nico. Non ho mai fatto film contro qualcuno, film di rivalsa. Trovo anche abbastanza normale che la storia di Eleanor Marx sia meno conosciuta rispetto a quella del padre. Il padre ha cambiato la storia.
Però hai raccontato Eleanor, non Karl.
“Sì, ma raccontando Eleanor racconto delle cose di Karl che non sono mai state raccontate. Questo succede anche con Chiara. Anzi in Chiara è ancora più lampante. La maniera in cui Francesco ha gestito i conflitti interni alla sua comunità viene raccontata attraverso gli occhi di Chiara. Miss Marx era un film sul comunismo, Chiara è un film sull’anarchia, nel senso più nobile. Francesco era un anarchico nella gestione del suo movimento, era per non avere capi. Questa cosa Chiera non la capisce, la fa arrabbiare ma alla fine la comprende e la accetta.
Parliamo dello stile. Da Cosmonauta a Chiara, quanto è cambiato.
“Al tempo di Cosmonauta arrivavo sul set con una lista di inquadrature. Poi davanti al monitor capivo che alcune non le volevo proprio fare. Una per tutte: il fratello della protagonista, Arturo, soffriva di epilessia. Io faccio un dolly e inquadro la sua crisi epilettica dall’alto. A distanza. Invece nella lista inquadrature avevo scritto ‘macchina a mano, dettagli della bava che esce dalla bocca e della mano che trema’. Quando l’ho visto al monitor, ho cancellato il movimento con la macchina a mano. Ho capito quanto fosse importante per me mantenere sempre una distanza, abbastanza da lasciare che le cose accadano davanti alla macchina da presa. Io faccio pochissimi primi piani, mi piacciono molto i campi a due, dove i personaggi sono insieme e le cose succedono. Mi piace Jarmusch, mi piace Woody Allen che i primi piani non li fa mai, mi piacciono anche i registi che fanno i primi piani intendiamoci, però il linguaggio che sento mio è questo: un linguaggio della distanza. Io credo molto nell’ironia, a tutti i livelli. Per me Nico era un film che faceva ridere e mi ricordo di esserci rimasta malissimo alla prima a Venezia perché non rideva nessuno. Al contrario in Danimarca hanno riso tutti. Allora ho capito che il mio è un umorismo scandinavo. Per me la distanza è sempre ironica. Chiara è un film molto ironico. Non sopporto la sottolineatura del dramma, del dolore, questo anche in scrittura. I conflitti li metterei quasi sempre fuoricampo, perché sono convinta che nella vita non esistano le scene madri.”
Solo nel cinema.
“Solo in un certo tipo di cinema. Con Nico ho capito definitivamente il linguaggio che volevo fare. Con Miss Marx e Chiara sono stata più in controllo di quello che facevo. Anche se Chiara è molto meno controllato perché è un film che mi ha emozionato tanto. E ogni volta succedevano delle cose in scena che non controllavo mai."
Quanto fa bene questa mancanza di controllo al film?
“Lo rende più emozionante, più sentimentale. I temi di Chiara personalmente mi commuovono molto. Anche quelli religiosi. Quando rivedo la scena di Balbina, il miracolo più grande che fa Chiara, ripenso sempre alla volpe che quel giorno venne a farci visita sul set a Tuscania, in mezzo al nulla, ed è rimasta con noi tutto il tempo della scena. Ci penso sempre a quella volpe. Quando mai una volpe arriva e se ne sta con noi senza problemi? In questo film sono successe cose che mi hanno emozionato tantissimo. Anche tra i ragazzi. Eravamo appena usciti dal Covid ed eravamo tutti insieme. Eravamo una comunità."
A chi pensi quando giri le tue storie?
Sempre al pubblico. Ho iniziato a studiare cinema in America, con uno stage alla UCL di Los Angeles. Stavo facendo il dottorato in filosofia ma ero in crisi con lo studio universitario. Sapevo che non era la mia strada. Ho deciso perciò di volare a Los Angeles un’estate, ho lavorato per una casa di produzione, ho seguito dei corsi, i primi manuali di sceneggiatura che ho letto erano quelli con i tre atti. Sono abituata a pensare al pubblico. Il cinema d’autore l’ho scoperto quando ho studiato in Francia, a Parigi, quando ho visto Pasolini e Fellini. Da una parte avevo questa formazione americana, dall’altra ho imparato come tutte le sue regole potevano essere messe in crisi. L’ho imparato da un autore che ho amato tantissimo, Truffaut. Penso sempre al pubblico. Anche quando decido di destrutturare il racconto, lo faccio sempre pensando al pubblico. Quando destrutturi il racconto, quando sorprendi, quando togli invece di aggiungere, stai portando il pubblico dentro il film. Non credo nel destrutturare il racconto contro il pubblico, lo faccio semmai come atto di ammirazione, di amore, per un pubblico che può capire. Che può crescere, può riflettere, può continuare a parlare. Amo l’idea della gente che, visto il film, esce dalla sala e ne parla.”
Che posto hanno i registi nella costruzione dell’identità di un Paese?
“Il cinema ha sempre una dimensione politica. Sento molto il peso della responsabilità politica di quello che faccio. Anche portare la gente al cinema è in fondo un atto politico. Tra i film che ho amato di più c’è Buongiorno, notte. Ricordo di averlo visto proprio al Greenwich, dove tornerò lunedì per l’apertura di Tertio Millennio. È un film che ho amato tantissimo perché proponeva al pubblico due strade, quella del sogno con Moro liberato e quella del funerale: un grande atto di fiducia nei confronti dello spettatore, perché scommetteva sulla sua capacità di comprendere questo doppio registro comunicativo. Io ero dentro il film a quel punto: mi veniva chiesto di partecipare.”
Oltre a Bellocchio, quali altri registi ti hanno influenzato?
“Fondamentale per la mia crescita è stato Moretti: ricordo sempre quella scena di Mia madre in cui Margherita Buy dice ad Anna Bellato: ‘Devi stare accanto al personaggio, invece di identificarti’. Moretti, con cui ho lavorato tanto, mi ha insegnato tanto su come si lavora con gli attori. La recitazione nei suoi film ha qualcosa di unico, straniante, che invece di chiedere al pubblico l’identificazione, l’opera culinaria direbbe Brecht, domanda di partecipare in un modo più consapevole. E poi Fellini, il più grande regista mai vissuto. Alcuni suoi film li vedrei all’infinito.”
Prossimo film nel cassetto?
"Sto lavorando sulla mia adolescenza. Ho ripreso i diari per capire come sono diventata quella che sono diventata. Ho fatto il mio primo film su quello ma voglio ritornarci perché è lì che diventiamo quello che siamo, anche in senso negativo. Mi ricordo cosa disse Nanni Moretti agli studenti del Centro Sperimentale: ‘Cercate di capire chi non volete essere’. È il passo fondamentale per costruire la propria identità”