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Ana De Armas (credits Karen Di Paola)
Pochi giorni fa IMDB, la più grande banca data digitale di cinema e tv al mondo, ha pubblicato la solita classifica delle star più popolari dell’anno. Questa è la top ten:
1 Ana de Armas
2 Emma D'Arcy
3 Milly Alcock
4 Joseph Quinn
5 Julia Garner
6 Millie Bobby Brown
7 Austin Butler
8 Lily James
9 Zoë Kravitz
10 Jamie Campbell Bower
Al di là della preponderanza di donne (sette su dieci) e di un criterio di classificazione su cui si può discutere (basato sulle page views del sito di IMDB), quello che colpisce è che, Zoë Kravitz (Batman) e Austin Butler (Elvis) a parte, nessuno tra i primi dieci nomi in classifica è passato dal grande schermo. Sì, Ana de Armas l’abbiamo vista in Blonde ma, tolta la prima veneziana a settembre, quel film è nato e finito su Netflix. Il resto è una parata di stelle del firmamento seriale: House of the Dragon (Emma D'Arcy e Milly Alcock), Stranger Things (Millie Bobby Brown, Joseph Quinn, Jamie Campbell Bower), Ozark e Inventing Anna (Julia Garner), Pam & Tommy (Lily James).
Curioso, non sconvolgente. Pure senza l’ausilio dei numeri (gli OTT non li danno), è un dato empirico il fatto che ci sia stato negli ultimi tempi un travaso importante di spettatori dalle sale alle piattaforme di streaming. E che il vecchio star system sia tra l’ammaccato e l’ossidato non lo scopriamo certo oggi. Il 2022, con tutti i problemi che ha avuto, un blockbuster però ce lo ha lasciato (in attesa di Avatar – La via dell’acqua): Top Gun: Maverick. Un miliardo e mezzo al box office globale è più che una cifra di tutto rispetto: è incasso da età dell’oro. All’origine di questo clamoroso successo c’è, guarda caso, un divo d’altri tempi, l’immortale Tom Cruise. Salutati, lui e il film, come la rivincita della vecchia Hollywood, come l’inizio dell’ora del riscatto del sistema theatrical sullo streaming, ci saremmo aspettati di trovare l’immarcescibile Tom tra le star più popolari del 2022. Invece nella chart IMDB è solo 17°.
Un tempo queste classifiche servivano a determinate il potere contrattuale degli attori nei confronti delle major: più seguito avevano, più soldi ottenevano. Questa equazione sembra non valere più da quando lo streaming ha ribaltato lo schema. E il motivo è presto detto: contano gli abbonamenti, non i singoli accessi. Ovvero il contenitore, non il singolo contenuto. Il potere contrattuale è tutto nelle mani delle piattaforme, ne sa qualcosa Scarlett Johansson che lo scorso anno ha intestato causa alla Disney per i compensi mancati di Black Widow (la diffusione in streaming del film avrebbe intaccato i guadagni dell’attrice, definiti secondo contratto dalla performance del titolo al botteghino cinematografico).
Senza arrivare a sostenere che ci sia una strategia dietro tutto questo, è innegabile come il modello di produzione dello streaming non aiuti la ripresa di uno star system. Oltre al crescente disaccoppiamento tra valore commerciale dei titoli e popolarità degli interpreti, pesa la bulimia di un sistema che deve essere continuamente alimentato di nuovi contenuti per soddisfare gli appetiti di un numero enorme di abbonati. Si produce a ruota continua, non sempre con la dovuta attenzione alla qualità e con un ricambio incessante di manodopera, compresa quella più pregiata: gli attori.
Questo meccanismo ad altissima deperibilità – in linea peraltro con lo Zeitgeist social e l’evanescenza dei suoi fenomeni - mentre instilla inconsciamente nello spettatore l’abitudine al ricambio, non permette che si costruiscano vere e proprie carriere cementate dal tempo. Occorre ricordare come i Cruise non nascano in un giorno, ma alimentino il proprio mito e il potere di fascinazione sui pubblici film dopo film, sulla spinta di carriere pluridecennali. È proprio l’ampiezza dell’arco temporale a consentire il radicamento nell’immaginario di un volto e delle qualità associate (nel caso di Cruise il sorriso, la sfrontatezza, il coraggio, la muscolarità, ecc…). All’apice di questo processo, il pubblico sceglierà quel divo indipendentemente dal film che lo vede protagonista. Ecco perché la strategia usa e getta è la peggior alleata del divismo (sarà per questo che Cruise non ha mai voluto partecipare a nessuna serie televisiva?). Ed ecco perché, tolta quella decina di star brizzolate che ancora fanno da traino ai loro film, non c’è stato un vero ricambio generazionale da questo punto di vista. Che non significa che non esistano più le star, solo non abitano il mondo cinema. Lo si è visto di recente con Timothée Chalamet: quanto ha spostato a livello commerciale la sua partecipazione a Bones and All di Luca Gadagnino? 11 milioni worldwide. Praticamente nulla.
C’è poi un altro fatto: l’algoritmo. Per quanto lo si possa perfezionare, l’input algoritmico non solo è premiante rispetto a temi ed atmosfere ben definite (con buona pace degli attori, ancora una volta), ma è fondamentalmente confermativo riguardo ai desideri del pubblico. Per usare una formula un po’ riduttiva ma plastica: il sottoscrittore ritrova in piattaforma chi è, lo spettatore scopre al cinema chi potrebbe essere. La star non è lo specchio di ciò che siamo, porta un di più. Questo di più è lo stuzzichino del desiderio. Oggi chi dovremmo desiderare di essere? Forse un supereroe Marvel, che travalica ogni soglia del possibile?
A proposito di supereroi, sono quanto di più somigliante al vecchio star system. Il che non fa bene allo star system, perché il loro travestimento, la loro maschera, velano l’attore che ci sta dietro, anche quando (soprattutto quando) ha un nome: vale più Spiderman di Tobey Maguire, Andrew Garfield o Tom Holland. Lo stesso si può dire dei grandi fenomeni seriali degli ultimi anni. Prendiamo Game of Thrones: quanti dei suoi interpreti si sono imposti sopravanzando la fama dei propri personaggi?
Il che ci porta a concludere che non è un problema di qualità della recitazione – di ottimi attori se ne trovano anche in piattaforma – o di copioni – lo streaming da questo punto di vista è democratico: ci sono prodotti eccelsi, middlebrow, scadenti – ma di logiche di sistema. Sono cambiati gli ingranaggi. Per carità, potremo ancora avere exploit dell’antico divismo come quello realizzato da Tom Cruise quest’anno, ma va trattato per quello che è: non un’inversione di tendenza, semmai l’eccezione che conferma la regola o persino il canto del cigno di un mondo.
Una sfasatura che ha portato anche benefici in termini di accesso alle produzione, con un numero di attori coinvolti dal sistema sicuramente più alto che in passato e una rappresentanza sociale, culturale e di genere certamente più rispettosa della complessità del reale. Il cinema perde forse un prezioso alleato nella costruzione del consenso (e del proprio modello economico) ma l’immaginario potrebbe uscirne persino più arricchito, finalmente affrancato da forme di investimento narcisistiche e da modalità risarcitorie di identificazione meno omologanti.