Non prendiamoci in giro: abbiamo una vera e propria ossessione per la cronaca nera. Dall’audience di programmi come Storie maledette, Un giorno in pretura, Quarto grado e Chi l’ha visto? (senza scordare l’aura di culto che circonda Telefono giallo, Blunotte e Delitti) al flusso crescente di podcast dedicati al true crime nostrano, i dati parlano chiaro. Vogliamo sapere perché e percome qualcosa di atroce è avvenuto, chiarire quale sia la verità (ammesso che sia mai possibile chiarirla), giudicare le motivazioni di chi ha ucciso, identificare “i mostri” e illuderci che siano altro da noi. Eppure, salvo alcune eccezioni, questo ambito non è mai stato particolarmente esplorato dalla nostra serialità.

Se da un lato consumiamo decine e decine di prodotti stranieri “basati su una storia vera”, dall’altro, in Italia, preferiamo la rassicurante coperta del giallo o del poliziesco di finzione. Il crimine che ha fatto la storia del nostro piccolo schermo è stato quasi sempre quello organizzato. Difatti, la prima produzione che ha scelto di prendere i delitti dai notiziari per ricostruirli a favore del pubblico è stata La piovra (trasmessa sulle reti Rai dall’11 marzo 1984 al 17 gennaio 2001 per un totale di dieci stagioni), capace di raccontare “in diretta” la violenza della mafia (e i suoi proficui rapporti con le stesse istituzioni che, in teoria, dovrebbero combatterla) in un modo così realistico da meritarsi i complimenti di Giovanni Falcone, assassinato alla viglia della sesta stagione. Nel 2014, Stefano Sollima ha fatto comprendere a tutti la contemporaneità di Gomorra usando gli stessi elementi che gli avevano permesso di rievocare con tanta efficacia il passato di Romanzo criminale (2008-2010).

Oltre all’elevata qualità della scrittura, alla peculiarità della messa in scena e al cast (volti non ancora noti al grande pubblico, ma che sembrano nati per le proprie parti), a decretare il successo internazionale di Gomorra (trasmessa da Sky Italia sino al 2021) è stata l’assenza di concessioni a quel tipo di narrazione rassicurante su cui poggia la fiction generalista, l’adesione alla cruda realtà dei fatti e l’immersione in un’oscura realtà parallela, dove l’ordine sociale è rovesciato. Così facendo, Sollima ha sia vinto una duplice sfida (il confronto con il best seller di Roberto Saviano e il pluripremiato film di Matteo Garrone), sia scatenato il doppio delle polemiche rispetto a Romanzo criminale. “Non è la serie a essere violenta, è crudo e violento il mondo che inscena” replica il regista, intervistato da Valentina Torlaschi. “Sarebbe un errore concettuale e una forma di ipocrisia raccontare questa storia censurandone aspetti che sono caratteristiche fondanti. Sì, è un mondo brutto, sporco e cattivo, ma è doveroso mostrarlo”.

il mostro

Forse per questo, in attesa del prequel di Gomorra, Sollima ha deciso di passare da Sky a Netflix per raccontare un altro tipo di male, concentrandosi su una ferita aperta che ha segnato in modo indelebile la percezione italiana della cronaca nera: i delitti del Mostro di Firenze, che hanno insanguinato la Toscana fra il 1974 e il 1985. A dispetto delle condanne ufficiali, per l’opinione pubblica il caso resta aperto (in molti sono convinti che i cosiddetti “compagni di merende” siano serviti solo a chiudere le indagini) e la stampa si infiamma a ogni nuova ipotesi (dalla pista esoterica al coinvolgimento del serial killer americano Zodiac) o scoperta. E, per qualche crudele gioco del destino, le scoperte saltano fuori con una certa regolarità, aumentando dubbi e supposizioni. Basti pensare che lo scorso gennaio è stata appurata la misteriosa sparizione delle foto scattate da Nadine Mauriot (ultima vittima del Mostro insieme al compagno Jean-Michel Kraveichvili), mentre a inizio maggio si è stabilito che la tenda inserita tra i reperti non apparteneva ai due ragazzi francesi, bensì a Salvatore Vinci, uno dei primi indagati in relazione alla cosiddetta pista sarda.

Stefano Sollima
Stefano Sollima

Stefano Sollima

(Emanuela Scarpa)

Al Mostro di Firenze era già stata dedicata l’omonima miniserie Fox Crime (2009), diretta da Antonello Grimaldi e incentrata soprattutto sulle figure di Renzo Rontini (padre della vittima più giovane, la diciottenne Pia) e del magistrato Silvia della Monica, a cui l’assassino – per vantarsi o intimidirla – aveva spedito un lembo di seno della Mauriot. Netflix, invece, ha preferito abbreviare il titolo (Il Mostro in Itala, The Monster all’estero) e ha confermato Sollima come unico regista, nonché creatore della serie insieme al sodale Leonardo Fasoli. Sul piano produttivo, entrano in gioco The Apartment (società del gruppo Fremantle) e AlterEgo, ovvero Lorenzo Mieli e ancora Sollima. De Il Mostro sappiamo solo che durerà quattro episodi, ma che non opterà per una narrazione cronologica progressiva.

Lo spirito dell’operazione lo troviamo però nel comunicato ufficiale di Netflix, che recita: “Otto duplici omicidi. Diciassette anni di terrore. Sempre la stessa arma. Una Beretta calibro 22. Una delle più lunghe e complesse indagini italiane sul primo e più brutale serial killer della storia del Paese: il Mostro di Firenze. Una serie basata su fatti realmente accaduti, testimonianze dirette, atti processuali e inchieste giornalistiche. Tutto terribilmente vero. Perché crediamo che il racconto della verità, e solo quello, sia l’unico modo per rendere giustizia alle vittime. In una storia dove i mostri possibili, nel corso del tempo e delle indagini, sono stati molti, il nostro racconto esplora proprio loro, i possibili mostri, dal loro punto di vista. Perché il mostro, alla fine, potrebbe essere chiunque”.

avetrana

Raccontare i possibili mostri e rendere giustizia alla vittima (senza cedere al ricatto ideologico o alla pornografia del dolore) è anche l’obiettivo primario di un’altra miniserie molto attesa: Avetrana – Qui non è Hollywood (Disney+), diretta da Pippo Mezzapesa e basata su Sarah: la ragazza di Avetrana, libro inchiesta di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, che hanno collaborato anche alla sceneggiatura, firmata dallo stesso regista insieme ad Antonella Gaeta e a Davide Serino. La storia, purtroppo, non solo è tristemente nota, ma resta uno degli esempi che si fanno per spiegare quel giornalismo feroce, che divora ogni cosa in nome della notizia. Il 26 agosto 2010, nel paese salentino di Avetrana, la quindicenne Sarah Scazzi scompare nel nulla dopo essere uscita di casa per raggiungere l’abitazione degli zii. Il suo aspetto angelico e indifeso scatena un circo mediatico che si evolve in reality show dell’orrore quando, quarantadue giorni dopo, il corpo della ragazzina viene ritrovato in un pozzo e, sotto gli occhi implacabili delle telecamere, inizia la caccia ai colpevoli.

Anche Mezzapesa ha optato per le quattro puntate, strutturandole però con un andamento cronologico (sebbene punteggiato di flashback). Ciascun episodio è imperniato sul ritratto di un personaggio chiave (Sarah/Federica Pala, la cugina Sabrina/Giulia Perulli, lo zio Michele Misseri/Paolo De Vita e la zia Cosima Serrano/Vanessa Scalera) per offrire nuovi spunti di approfondimento su una vicenda che ha ancora tante, troppe zone d’ombra, nonostante le sentenze giuridiche. Come sosteneva Giancarlo Bizanti/Gian Maria Volonté nel film Sbatti il mostro in prima pagina (1972), un caso si può montare anche se l’assassino non è perfetto.

E il pensiero corre a Marco Bellocchio, il quale, dopo Esterno notte, sta progettando una nuova serie, dedicata a un altro tipo di massacro: quello mediatico subito dal conduttore Enzo Tortora, arrestato e condannato nel 1983 per associazione camorristica e traffico di droga, sulla base di accuse poi rivelatesi false. Non a caso, Bellocchio ha affermato di essere interessato a esplorare soprattutto il connubio fra giustizia e televisione, strumento che per alcuni è il male supremo, per altri la base del Paese. Già in passato l’Italia ha dimostrato di saper diagnosticare perfettamente i propri lati oscuri, attraverso le produzioni seriali: la speranza è che continui a farlo.