PHOTO
Sophia Loren in La vita davanti a sé
Living and Loving, vivendo e amando, è il titolo di una sua biografia di oltre quarant’anni fa, quando lei di anni ne aveva quarantacinque ma era già nella storia. Perché la storia, Sophia Loren, l’ha fatta davvero, per meriti sul campo che le permettono tutt’ora un’inossidabile permanenza nell’immaginario. Una vita che è un romanzo, che lei stessa ha contributo a scrivere e riscrivere: per lei vale la regola di John Ford, cioè che “se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. La vita è un romanzo, anzi un film, e Sophia Loren, che il 20 settembre raggiunge il traguardo dei 90 anni, l’ha sempre saputo.
Figlia di Romilda, una donna bellissima che, per diktat familiare, rinuncia alla carriera come sosia e controfigura di Greta Garbo, non viene subito riconosciuta dal padre biologico, l’immobiliarista Riccardo Scicolone: una linea matriarcale che curiosamente congiunge la diva a quella della stagione precedente, Anna Magnani, anche lei cresciuta tra donne e senza padre. Quando cambia l’aria e la famiglia esce dall’indigenza, Sofia compra il cognome paterno per la sorella Maria (che Scicolone, chissà perché, non voleva legittimare), che poi si sposa con il figlio di Mussolini, il jazzista Romano: più romanzo popolare di così…
La questione del cognome è centrale: il Villani materno cede il passo a Scicolone, Sofia viene eletta “Reginetta dell’eleganza” a Miss Italia 1950 e appare nei primi fotoromanzi (ma Romilda benedice e sovrintende tutto l’apprendistato della futura diva, per amore ma anche per proiezione: l’abbiamo detto, è un clamoroso romanzo popolare); poi, scoperta dal pigmalione Carlo Ponti (già quarantenne e sposato, per la sua “creatura” lascia la moglie), fino al 1952 si fa chiamare Lazzaro, perché la sua bellezza farebbe resuscitare i morti; infine, su suggerimento di Goffredo Lombardo, la quadratura del cerchio con Loren, calco dell’allora svedese stellare Märta Torén, con il nome che da Sofia anela l’internazionalità con Sophia.
Determinata se non proprio affamata, Sophia Loren trascende la bravura: è talento innato, istinto sensuale, carisma giunonico, consapevolezza di sé, padrona del proprio destino. La mitologia – o la favola? – suggella il trionfo della ragazza del popolo che conquista tutto e tutti, con un profilo da “self made woman” che, unito all’esplosione estetica, la rende perfetta per il mercato hollywoodiano, dunque mondiale. Ambasciatrice dell’Italia nel mondo (la bellezza, le forme, la simpatia, l’esuberanza, la passionalità), testimonial della ricostruzione (l’apogeo del Piano Marshall: lei, che aveva patito la fame e vissuto di stenti, era il ritratto della salute), incarnazione di una libertà (sessuale nonché “coniugale”) che le colleghe americane non potevano permettersi.
Di Sophia Loren restano indelebili le epifanie, le immagini che la rendono icona di un’epoca e di un cinema, dentro film con titoli che sembrano la sua biografia: irresistibile ladruncola che ondeggia e canticchia Bingo Bongo (Peccato che sia una canaglia di Alessandro Blasetti, primo incontro con Vittorio De Sica, altro pigmalione, e Marcello Mastroianni, spalla naturale), spudorata pizzaiola che fa finta di recuperare l’anello di fidanzamento (L’oro di Napoli di De Sica), figlia di un cuoco abbracciata all’affamato Totò (Miseria e nobiltà), Bella mugnaia lanciata sull’altalena e sulle miserie altrui, Donna del fiume che arrostisce anguille e pedala lungo il Po, sensuale smargiassa che balla il mambo per concupire il maresciallo De Sica (Pane, amore e…), cugina procace accanto alla meno appariscente Franca Valeri (Il segno di Venere), modella opportunista che si inquadra nell’obiettivo costruito dalle mani di Mastroianni (La fortuna di essere donna).
Sono gli anni delle maggiorate, di donne più belle del mondo (Gina Lollobrigida, la grande rivale) e donne che inventarono l’amore (Silvana Pampanini), ma lei è qualcosa in più: nel suo volto confluisce la storia di un Paese, nel suo corpo il desiderio di tutto un popolo, nel suo sguardo l’ambizione di non essere come tutti.
La vita è un film, dunque l’America l’adotta, Life la mette in copertina, Hollywood la chiama in film, spesso senza infamia né lode e sempre accanto a maschi che cadono ai suoi piedi, e che però la rivelano a chiunque: Orgoglio e passione con Frank Sinatra, Timbuctù con John Wayne, La chiave con William Holden, Il diavolo in calzoncini rosa (il migliore oltreoceano, lei è magnifica anche grazie al touch di George Cukor), Orchidea nera con Anthony Quinn, Un marito per Cinzia con Cary Grant, Desiderio sotto gli olmi con Anthony Perkins, Quel tipo di donna con Tab Hunter, La baia di Napoli con Clark Gable, La miliardaria con Peter Sellers.
La vita è un film, quindi torna in Italia da profeta: La ciociara, prodotto da Ponti con la regia di Cukor, è pensato su misura di Anna Magnani (piace ad Alberto Moravia, l’autore del romanzo), a Loren spetterebbe il ruolo della figlia stuprata dai soldati. Solo che la matrona del neorealismo non ce la pensa proprio di fare da mamma alla diva giunonica (“Ma chi ci crede?”) e così esce dal progetto insieme al regista, spianando la strada alla venticinquenne Loren per la parte di Cesira (la figlia, di conseguenza, diventa poco più che adolescente), con la regia che passa al fidato De Sica. È un trionfo: esce con successo a Natale 1960, qualche mese dopo lei vince il premio per l’interpretazione a Cannes, poi il David, il Nastro, il BAFTA, il riconoscimento dei critici di New York e, dulcis in fundo, l’Oscar, seconda italiana dopo Anna Magnani. Ma, dato che la vita è un romanzo, c’è anche altro: non vola a Hollywood (scaramanzia?), la RAI va a casa sua, la trova in vestaglia con Ponti, all’epoca ancora sposato, e quindi non se ne fa niente, meglio evitare che l’orgoglio nazionale si mostri per quel che è agli occhi dei benpensanti, cioè una concubina.
Anche il love affair con Ponti è puro cinema: nel 1956 lui va in Messico e ottiene il divorzio, un anno dopo sposa Loren per procura ma non può rientrare in Italia perché accusato di bigamia (il divorzio, da noi, sarebbe arrivato anni dopo), gli amanti tornano in patria nel 1960 e negano le nozze, nel 1962 il primo matrimonio di Ponti viene annullato e nel 1966 i due acquisiscono la cittadinanza francese, si sposano oltralpe e, dopo vari tentativi, hanno due figli, Carlo Jr. nel 1968 e Edoardo nel 1973.
Non solo: nel 1978, dopo parecchi chiacchiericci dovuti ai problemi con il fisco, vengono accusati di aver portato all’estero 10 miliardi di lire con il paravento dei film in coproduzione, nel 1982 lei viene persino incarcerata con l’accusa di frode fiscale (restando per 17 giorni nel penitenziario di Caserta: una storia incredibile da riscoprire) e solo nel 2013 la Corte di Cassazione esclude qualsiasi responsabilità della diva, attribuendo la frode al commercialista.
Nel frattempo, vari gossip: di ufficiale c’è il flirt con Grant, ma i paparazzi la immortalano con Richard Burton (lavorano insieme nel pirandelliano Il viaggio, ultima regia di De Sica) in pausa da Elizabeth Taylor ed Etienne-Emile Baulieu, il medico che ha scoperto la pillola per l’interruzione di gravidanza. E però l’amore per Ponti, partner in crime e figura paterna, è qualcosa che va al di là del ménage matrimoniale: il loro è un connubio anche industriale e, dagli anni Settanta in poi, il produttore si dedica quasi esclusivamente alla carriera della moglie.
Al sodalizio Ponti-Loren si devono i migliori film della diva, nella stagione in cui lei, all’apice della gloria, vanta il nome più grande in cartellone (pari a quello di Charlton Heston in El Cid, Gregory Peck in Arabesque e Marlon Brando in La contessa di Hong Kong, ultima regia di Charlie Chaplin assolutamente da riscoprire, mentre è il primo in Lady L e nel kolossal La caduta dell’Impero romano).
Negli anni Sessanta, chez De Sica, esplode nell’episodio La riffa di Boccaccio ’70 (1962), un anno dopo sfavilla una e trina in Ieri, oggi, domani (una sigarettara abusiva sempre incinta pur di non andare in carcere, una ricca signora borghese che scarica l’amante, una prostituta dal cuore d’oro che entra nell’immaginario grazie allo spogliarello: l’Oscar al film straniero è dovuto a lei e a Mastroianni) e trionfa in quello che è uno dei suoi tre capolavori d’attrice, Matrimonio all’italiana (1964), dove è una Filumena Marturano travolgente e commovente che le fa sfiorare il secondo Oscar.
Deve aspettare il 1977 per un altro capolavoro (nel mezzo è tumultuosa in C’era una volta e divertente come Moglie del prete, il resto è professionismo fuori dagli annali): la dolente, straziante, dubbiosa, ingenua Antonietta di Una giornata particolare, penultimo incontro con Mastroianni e prima (e unica…) collaborazione con Ettore Scola, che la vuole a ragione senza trucco e scapigliata.
Ma è anche un canto del cigno, perché a quarantaquattro anni sembra già monumentalizzata: Living and Loving, appunto, e nel 1980 la biografia diventa biopic per la NBC, Sophia Loren: Her Own Story, dove lei fa stessa (mai arrivato in Italia). E un altro biopic se lo regala nel 2010, ma stavolta interpreta mamma Romilda (La mia casa è piena di specchi, Margareth Madè fa Sophia).
Al netto di qualche bella prova per il piccolo schermo (Sabato, domenica e lunedì e Francesca e Nunziata per Lina Wertmüller), un paio di amabili guizzi (Prêt-à-Porter di Robert Altman e That’s Amore – Due improbabili seduttori con Walter Matthau e Jack Lemmon) e un’operazione a tratti folle (il remake-revival La ciociara), la sua carriera sembra fermarsi, tant’è che, nel 1991, a cinquantacinque anni, le conferiscono un Oscar onorario: se all’anagrafe può risultare prematuro, è però un attestato di stima e amore di un’industria che una così non l’aveva mai vista prima. Acclamata in ogni dove, amatissima da almeno tre generazioni, epicentro femminile di un paese maschilista, la sua vita è il film che ha scritto, diretto e interpretato da sé, un lungo film chiuso con un titolo che è un auspicio: La vita davanti a sé.