A livello simbolico, “un giardino è il luogo misterioso dove molte storie hanno inizio” e ciò che ci spinge a raccontarle è proprio la memoria di un posto in cui non possiamo tornare. Sin dall’inizio, Sofia Coppola ha scelto di narrare quel locus amoenus dell’anima e, “come una Calipso dei nostri giorni, tesse una gabbia dorata, una bellissima prigione assolata da cui si può uscire solo attraverso la porta più buia e segreta, quella della morte”. Difficile dissentire da ciò che scrive Alice Rohrwacher su Il giardino delle vergini suicide nel volume Sofia Coppola: Forever Young (pagg 288, € 52,00), firmato Hannah Strong nel 2022 (da qui l’assenza di Priscilla, 2023), ma giunto in Italia solo adesso grazie alla casa editrice Il Saggiatore.

Contrariamente a ciò che si potrebbe supporre, la prefazione di Rohrwacher non è un’aggiunta nostrana, ma si pone come parte integrante del libro sin dal debutto sul mercato statunitense. Del resto, risulta assai significativo che la regista de Le meraviglie e La chimera affermi di aver sempre rincorso i film della collega statunitense “come si rincorre un rito arcano, cercando le sue storie come si cercano le formule magiche per aprire nuove porte dell’anima. Il suo sguardo fiorito e ironico, quanto spietato e affilato come una lama, mi ha accompagnato e trasformato. Il suo cinema è per me come l’isola di Ogigia in cui abitava la dea Calipso: è sempre da qualche parte”.

Dal canto suo, l’autrice del libro attribuisce all’opera coppoliana non solo gli encomi artistici, ma anche il merito di averla riscossa “dalla malinconia che ero arrivata ad accettare come inevitabile”. “La caratteristica distintiva della filmografia di Sofia è l’onestà”, afferma Strong. “Sebbene goda dell’innegabile privilegio di essere la figlia di uno dei cineasti più famosi di Hollywood, Sofia ne ricava un senso di libertà creativa; non ha mai cercato di essere suo padre, e i suoi film indubbiamente lo dimostrano spiccando per la loro intimità e vulnerabilità, e attingendo all’arte, alla moda, alla musica pop e al cinema per creare qualcosa di familiare e allo stesso tempo astratto”.

Familiare e glamour è anche Sofia Coppola: Forever Young, che, pur non lesinando sulla canonica parte saggistica (corredata da materiale fotografico tanto abbondante quanto qualitativamente elevato), ammicca a un’estetica da album dei ricordi, fra pagine rosa, tinte pastello, collage rétro e scatti vintage. Escludendo videoclip musicali, spot e cortometraggi, la produzione non è analizzata in ordine cronologico, ma secondo quattro aree tematiche: Innocenza e violenza (Il giardino delle vergini suicide, 1999, L’inganno, 2017), Successo ed eccesso (Marie Antoinette, 2006, Bling Ring, 2013, A Very Murray Christmas, 2015), Padri e figlie (Somewhere, 2010, On the Rocks, 2020), Amore e solitudine (Lost in Translation, 2003).

Le interviste sono invece riservate a coloro che hanno contribuito in modo imprescindibile alla genesi dell’universo audiovisivo della cineasta: l’attrice Kirsten Dunst (divenutane l’alter ego sul grande schermo, con la consapevolezza che “se dovevi essere la musa di qualcuno, bene che tu lo sia stata per Sofia”), il musicista Jean-Benoît Dunckel (che, insieme a Nicolas Godin, non solo costituisce gli AIR, ma ha creato sia la colonna sonora de Il giardino delle vergini suicide, sia il brano strumentale Alone in Kyoto, utilizzato in Lost in Translation), la montatrice Sarah Flack (fedele spalla della regista dal 2003), il direttore della fotografia Philippe Le Sourd (che ha modellato luci e ombre ne L’inganno, On the Rocks e Priscilla), la costumista Nancy Steiner (responsabile del look dei primi due film della Coppola) e il compositore Brian Reitzell, il quale è stato il supervisore musicale de Il giardino delle vergini suicide e Lost in Translation e poi l’autore delle soundtrack di Marie Antoinette e Bling Ring.

È proprio Reitzell a sottolineare il modo in cui il mix coppoliano fra musica classica e contemporanea ha fatto scuola (“Adesso in tv si vedono solo cose fatte alla maniera di Sofia. Ti fa sentire vecchio ma ti inorgoglisce anche”) e come la regista sappia relazionarsi molto bene con la mentalità dei teenager (da un lato precursori di mode e stili, dall’altro incompresi cronici), in quanto tale modo di pensare “è in tutto ciò che fa”. “Essersi così profondamente occupata dell’agonia e dell’estasi di essere adolescenti” ha trasformato Sofia Coppola in colei che (almeno per il tempo di un film) riesce a far sentire ogni spettatore “forever young”, generando una sorta di identificazione che va oltre il mero coefficiente anagrafico e porta piuttosto a riflettere su quant’è tragicamente bella giovinezza, che si fugge tuttavia.

Ed ecco che, citando ancora una volta le parole di Alice Rohrwacher, “i personaggi di Sofia sanno tutti che non si finisce mai di crescere, e che crescere è sempre un mistero, un baratro che attrae e respinge. E che per crescere c’è sempre qualcosa a cui dobbiamo rinunciare, l’isola di Ogigia che dobbiamo, marinai nell’alba, abbandonare. I personaggi dei suoi film continuano ad accompagnarmi nel mio viaggio e sembrano guardarmi negli occhi e dirmi «Non c’è niente che possiamo fare, è andata così», mentre sorridono e piano piano scompaiono portandosi nel buio il loro segreto”.