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Il truffatore di Tinder (credits: Netflix)
I Social Media hanno invaso tutti gli ambiti della nostra società: dalla politica alla moda, dal cinema alla televisione fino ad arrivare, ai media, alla cronaca ed alle scienze sociali. Nel giro di pochi anni, grazie alla diffusione della tecnologia, sono diventati sempre più “determinanti” al punto da giocare un ruolo centrale nel nostro presente ed essere considerati come “la realtà” e non semplicemente come la loro artificiosa e tutt’altro che fedele rappresentazione.
La possibilità della manipolazione delle immagini e, dunque, l’alterazione della percezione, attraverso la presentazione di una realtà artificiale è uno dei rischi principali cui siamo esposti da ogni punto di vista. Sulle piattaforme troviamo disponibili alcune serie e documentari che sono stati già citati in queste pagine, ma che – messi insieme e a confronto - evidenziano come in questo momento, nel mondo, ci sia un problema: bastano delle foto su Instagram, alcuni TikTok mirati, qualche post su Facebook ed ecco che la realtà viene come ‘certificata’ al punto da lasciare spazio a bugiardi, truffatori e mitomani di operare sotto copertura e andare all’attacco di patrimoni, donne e ricchezze.
Si dirà che, da che il mondo è mondo, siano esattamente questi gli obiettivi principali e più ricercati di qualsiasi latrocinio, eppure, in questo caso oltre ai soldi e alle possibilità conseguenti, ci troviamo dinanzi ad una versione distorta del sogno americano 2.0: una serie di scorciatoie che, non senza lasciare qualche cadavere sul campo, anche qui in senso letterale e non figurato, possono colpire duramente le vittime che, alla fine, in certi momenti siamo tutti quanti noi e la società in cui viviamo.
È questo il caso di The Dropout, Inventing Anna e Il truffatore di Tinder, ispirati a persone e fatti realmente accaduti e diventati – incredibilmente – figure di primo piano. Il denominatore comune di questi racconti è quello di persone che grazie all’aura costruita attraverso i Social Media, sono riuscite a raggiungere “momenti di gloria” e ad arrivare laddove solo qualche anno fa, un paio di telefonate e qualche visita di persona, avrebbero facilmente dimostrato la loro inconsistenza personale e patrimoniale. Sono persone che hanno scardinato un sistema utilizzando i fondamenti del sistema stesso che basa, oggi, gran parte dei suoi meccanismi sull’uso indiscriminato dei Social Media per raccontare agli altri qualcosa che in verità non c’è e che, forse, invece, sono proprio gli altri a volere credere.
In The Dropout, Amanda Seyfried porta su Disney+ la storia di Elizabeth Holmes, ragazza di grande talento che decide di diventare un “genio a tutti i costi”, inventando qualcosa che, però, sembrerebbe non essere possibile realizzare, ovvero una macchina per fare delle analisi a basso costo disponibile per tutti. Condannata recentemente a venti anni di reclusione, la Holmes – così come ci viene raccontato – riesce ad ottenere risultati straordinari sul piano personale, convincendo uomini politici e grandi investitori della bontà delle sue azioni e dei suoi interessi nell’aiutare il prossimo.
Peccato che a fronte di questo intento certamente onorevole, ma dettato dal narcisismo più che da una vera volontà di salvare il mondo, la scienza alla base della sua ricerca fosse del tutto inconsistente. Come ha fatto, dunque, Elizabeth Holmes ad ottenere la fiducia dell’industria, della politica e perfino di un Presidente degli Stati Uniti? Merito di carisma e di un talento malefico certo, ma amplificato al massimo dai Social Media e da modalità di approccio digitale in grado di costruire un racconto autobiografico fatto di omissioni, finzioni e bugie.
Stessa situazione per Inventing Anna, in cui si rivivono i fatti che hanno portato dietro le sbarre la socialite russa Anna Sorokin, che è riuscita a farsi finanziare per centinaia di migliaia di dollari, asserendo di avere alle spalle una fortuna come ereditiera in Germania nel campo delle energie rinnovabili. Anna Delvey, questo il personaggio inventato da lei e pompato sui Social Media, è diventata una celebrità del jet set newyorkese, dando vita ad un misto menzogne, grazie ad una mirata attività di autopromozione sui Social Media.
Pigrizia, ingenuità e – forse – quella forma di acquiescenza che in molti di noi tirano fuori dinanzi alla ricchezza hanno fatto sì che questa ragazza, pur senza nessuna credibilità, sia riuscita a fare finanziare il suo progetto di un palazzo delle arti a New York. Una truffa da 300.000 dollari per la figlia di un camionista di provincia russo riuscita a diventare il centro dell’élite newyorkese raggirando pescecani della finanza e squali del mondo immobiliare, solo grazie alla sua capacità di mentire e di massimizzare il proprio stile di vita attraverso una serie di post mirati e di foto. Un misto fatale di segreti e bugie smascherati, entrambi, da giornalisti, celebrati da questa serie creata da Shonda Rhimes, non proni ai Social Media, ma capaci di approfondire e di porre le domande giuste.
Esattamente come succede nel documentario Il truffatore di Tinder, dove è un giornale nordeuropeo, a volere trovare la verità sul presunto figlio di gioiellieri israeliani che seduce donne non più giovanissime, facendosi finanziare da loro e mettendo su uno schema Ponzi in cui la ricchezza esibita con una nuova fiamma, deriva dai soldi estorti con l’inganno all’altra amante abbandonata. Storie diversissime tra loro accomunate dalla capacità di creare un sistema di specchietti per le allodole e conquistare così l’attenzione grazie alla messa in scena di Instagram e altri strumenti.
Tre racconti che hanno punti di partenza diversi, ma un’unica casella finale di arrivo: la prigione e – volendo essere più precisi – la celebrità televisiva alimentata, nuovamente, dall’informazione dei Social. Insomma, un circolo vizioso tanto inquietante quanto evidente in cui più la menzogna è grande, più, paradossalmente, è difficile smascherarla se vengono prese una serie di precauzioni in termini da rendere letteralmente “incredibile” che qualcuno possa provare a raccontarla.
A nostra parziale consolazione un’altra storia riguardante i Social Media, colpisce l’attenzione del pubblico facendoci peraltro capire come tutti siamo esposti alla possibilità di essere raggirati: è questo il caso di Sara Puppi, profilo Facebook di un’avvenente ragazza giovane e bella dietro cui, però, si nascondevano i servizi segreti iraniani. Una notizia che ci viene rivelata dallo Shin Bet, l'Agenzia per la sicurezza di Israele secondo cui la “presunta donna” tentava di abbordare e corrompere funzionari israeliani, sia sentimentalmente che attraverso il pagamento di somme di denaro in Bitcoin, al fine di carpire informazioni su obiettivi considerati sensibili dall’intelligence di Gerusalemme.
Insomma, un adescamento in vero e proprio stile “scandalo Profumo” e come nel caso del Ministro Britannico che rivelava segreti all’amante che lavorava per il KGB, qui abbiamo barbuti agenti iraniani che fingono di essere una donna per carpire informazioni e destabilizzare la nazione nemica. Una minaccia sventata proprio grazie al lavoro dello Shin Bet, i cui agenti sono finiti nel mirino della fantomatica Sara Puppi. Le richieste fatte attraverso l’account femminile erano le più varie: si va dalle informazioni sull'intelligence israeliana, fino al tentativo di far pronunciare frasi contro personalità di spicco.
Un'opera di cyber-terrorismo in piena regola, mascherata sotto il profilo Facebook di una ragazza che in realtà era solo un agente provocatore e provocante al punto giusto per fare abbassare le difese perfino agli 007 di Israele. Quindi? Siamo tutti in – un certo senso – in pericolo con i Social Media che stanno diventando, sempre più, una vera giungla tanto rischiosa quanto letale nella maniera peggiore possibile, perché i millantatori non sempre puntano ad un guadagno immediato, quanto piuttosto ad ottenere un guadagno impensabile da chi non sia a conoscenza del loro schema. Vale quindi la regola di sempre: non accettare caramelle dagli sconosciuti e – possibilmente – nemmeno richieste di amicizia.