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Gianluca Vacchi. Mucho Mas
Beati i tempi in cui credevamo che la manifesta opacità delle promozioni su Internet riguardasse “solo” le scelte etiche di fondo. Era un’epoca in cui pensavamo che la transizione dall’advertising tradizionale (carta stampata, radio, tv, cinema, affissioni) al cosiddetto digital marketing fosse solo e soprattutto un segno ineludibile dei tempi e del cambiamento. Più volte in queste pagine sappiamo di avere dato la sensazione a chi legge di essere un po’ come il leggendario cavallo della Rai a Viale Mazzini 14 a Roma: un animale stremato che si imbizzarrisce dinanzi al tempo che è passato, sapendo che la televisione ha preso il suo posto. Per sempre. Eppure, maledetta ingenuità, speravamo anche che il mondo che conoscevamo sarebbe cambiato verso qualcosa di diverso sì, ma, altrettanto regolato e perfino “trasparente”.
Ebbene, non solo ci sbagliavamo moltissimo, ma – forse – siamo stati anche, nostro malgrado, un po’ ‘complici’ involontari nel non sospettare di un sistema marcio alla radice, corrotto e – perfino – come se non bastasse foriero di modelli che il Procuratore di Napoli, Nicola Gratteri non ha esitato a definire come “una vetrina delle mafie” spiegando come – oggi – gli esempi negativi, non sono solo quelli delle ragazze e dei ragazzi che si spogliano a pagamento su OnlyFans, ma anche quelli di camorristi che sotto la luce dello smartphone, suggeriscono status symbol e ricchezze acquisite delinquendo, seminando terrore e – purtroppo – anche arrivando ad uccidere. Rincarando la dose Gratteri, intervistato su Raitre, insiste che su TikTok quello che vediamo “non è solo esibizionismo: questi influencer si fanno vedere ricchi, firmati, con tanti soldi e dicono noi siamo il nuovo modello, vuoi diventare come noi? I giovani non strutturati. Si trovano avviluppati e credono che quello sia il loro futuro. Con i social i mafiosi esternano l'arroganza. TikTok e Facebook vengono impiegati per confezionare clip e mandare messaggi emulativi, cosa che viene fatta a dire il vero anche con le canzoni neomelodiche, a volte con il rap. Sono messaggi in codice alle altre cosche”.
Come se non bastasse, al di là del presunto ricettacolo mafioso e dell’amplificazione di messaggi negativi, ecco altre inchieste che peggiorano lo stato delle cose: la Guardia di Finanza di Bologna ha, infatti, recuperato 11 milioni di euro conducendo accertamenti su quattro influencer bolognesi seguiti da 50 milioni di follower, e su cinque digital creator attivi su piattaforme come OnlyFans e Escort Advisor di cui almeno due totalmente sconosciute al Fisco. Le indagini, iniziate da oltre un anno e mezzo, hanno ricostruito come avvenissero i guadagni dalle pubblicazioni di post sui social e anche da collaborazioni avviate con alcune aziende. L'operazione si è svolta a seguito di segnalazione del Codacons che aveva presentato una serie di esposti alle Fiamme Gialle e all'Agenzia delle Entrate, segnalando l'attività di noti influencer e personaggi famosi che pubblicano foto e contenuti che, di fatto, promuovono hotel di lusso, resort, spa, con richiami espliciti (o camuffati) a brand o prodotti, senza informare i follower circa il contenuto pubblicitario del messaggio. Quindi non solo pubblicità occulta (altro che consigli spassionati…), ma anche ‘in nero’ ovvero senza che venga dichiarata al fisco.
A questo si aggiunge un altro sistema molto semplice che riguardava soprattutto il mondo dei contenuti per adulti (leggasi porno semi casalingo): ricariche di carte Postepay in nero, da parte dei propri follower e fan per l’acquisto di contenuti vari (foto, video, chat, dirette streaming, ecc.), con evasione completa delle trattenute. Un sistema “facile facile” per frodare il fisco, evadere le tasse e prendere per scemi (o altro…) migliaia di follower, ammirati e invidiosi di tanta ricchezza ostentata malamente e ottenuta a discapito della comunità. Se, quindi, una volta credevamo che gli influencer o – come preferivano farsi chiamare – imprenditori digitali, fossero figli delle idee della Silicon Valley e della controcultura californiana, anche qui ci sbagliavamo: ammesso che spogliarsi a pagamento e quanto segue per qualcuno che ti guarda al di là di uno schermo sia un lavoro degno di questo nome (pensiamo non lo sia…) è pure possibile che tutto questa avvenga in maniera del tutto illecita da ogni punto di vista? Ragazze e ragazzi di talento che avevano trovato una loro strada per conquistarsi un quarto d’ora di celebrità digitale all’insegna del 5G e della modernità, alla fine, facevano quello che si fa migliaia di anni: un’infrastruttura nuova non cambia la sostanza delle cose con l’esibizionismo digitale a pagamento, che sempre esibizionismo è a dispetto del cambiamento del nome.
Quello che è accaduto negli ultimi mesi, più che ad una puntata di The Big Bang Theory, assomiglia, quindi, di più ad un film minore di Mario Merola, con tanto di guappi (digitali) e Guardia di Finanza con la bella e il bello di turno che dice ‘non sapevo’. Una sceneggiata postmoderna che non ci meritavamo di vivere e che, soprattutto, oggi lascia una coltre terribile sul mondo delle truffe. Insomma, tutta un’altra storia che ha scoperchiato un vaso di pandora puzzolente di frode, di evasione fiscale e – come se non bastasse – di personaggi minimi di questa industria dell’entertainment di Serie B che è il mondo di tiktoker e influencer e della loro, spesso, specchiata disonestà a scapito di chi ci crede, ma anche delle aziende e della loro ricerca di scorciatoie per il marketing digitale.
Un orizzonte desolante, molto lontano – per esempio – dal mondo immaginato in serie come Mad Men dove pubblicitari di successo plasmavano un futuro elegante, seguendo un modello sociale e di benessere modellato sulla scorta del sogno americano. Del resto, che l’Italia sia un paese di guardoni (o peggio) sembra essere conclamato e non si può non notare che per una bella ragazza o un bel ragazzo che si spogliano su OnlyFans c’è sempre la serie di Netflix o altra piattaforma che “drammatizza” le gesta del divo del porno di turno, contrabbandandolo per un eroe libertario in un mondo di moralisti. Il guardonismo del “Supersex all’amatriciana” raccontato in Tv o dai verbali della Guardia di Finanza è desolante e fa sembrare la commedia sexy degli anni Settanta e Ottanta una sorta di Nouvelle Vague dell’erotismo fatto in casa quasi – amaramente – da “rimpiangere”. Perché almeno tutto avveniva alla luce del sole e il pagamento di un biglietto del cinema rendeva tutto meno ipocrita e – soprattutto – meno osceno.
Nell’era del femminismo come necessità e come scelta anche di tanti uomini per cambiare le cose, leggere le cronache giudiziarie coincide tristemente con la dolorosa e ineluttabile penale da pagare di trovarsi dinanzi ad un mondo di talenti sprecati, alla ricerca di scorciatoie, dove la vita viene ridotta a “consumismo puro” di oggetti, di persone, di sesso, di emozioni e di soldi. In questi anni ci eravamo illusi che la deriva del marketing digitale fosse una stortura delle aziende e di qualche creatore: forse le cose stanno diversamente. Ora che tutto passa attraverso i Social nulla ha più vero valore, perché tutto contrabbandato sotto una cappa di probabile illegalità e di opacità di contenuti. I contenuti generati dagli utenti sono inquinati, perché con l’idea che uno vale uno, l’intermediazione del critico, dello studioso, di chi ci ha pensato e lavorato non vale più niente.
E questo è il risultato: un Far West dove a parlare di fisica quantistica o a spogliarsi ammiccando sono i primi che passano, finanziati da questo o da quello, possibilmente evadendo le tasse e rifilando a tutti noi piccole e grandi fregature per cui, in tanti, continuano a ringraziare. La “debolezza” di cui parla Gratteri è la stessa della nostra società che, incapace di proporre modelli validi sul piano sociale, politico e spirituale si è fatta raggirare da quattro marpioni allupati di cui – alcuni – senza vestiti. È possibile? Non solo è possibile, ma è già accaduto e adesso c’è una considerazione ancora più dolorosa. Guardare è (anche) una scelta politica e oggi questa considerazione si traduce nella consapevolezza che avvicinarsi a tutto questo, nonostante lo sbrilluccichio pseudo glamour, non fa altro che renderci complici di un sistema che non ci può piacere. Quello dove le vite dei Rocco Siffredi (o chi per lui) diventano più importanti da raccontare di quelli che il mondo hanno provato a cambiarlo davvero. In meglio e con la ritenuta d’acconto.