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Per la prima volta nella storia una guerra è diventata Mondiale dal punto di vista dei Social prima che sul piano tattico o geopolitico. È evidente che nel corso degli ultimi anni, grazie alla diffusione a macchia d’olio di smartphone e tablet, i grandi eventi della storia siano stati condivisi in prima persona da tutti noi, ma è anche altrettanto vero che la modalità di fruizione dell’invasione russa in Ucraina è completamente diversa da quanto abbiamo visto, ascoltato e conosciuto prima d’ora.
Un po’ perché l’informazione è – come sempre successo nelle guerre – figlia e vittima della propaganda; un po’ perché il Presidente russo Vladimir Putin che è stato accusato in passato di avere manipolato i Social Media in America, UK e Italia per favorire candidati e partiti a lui più graditi, conosce bene il valore dei media che sono considerati, oggi come 80 anni fa da Mussolini, “l’Arma più forte”.
Una guerra mondiale in cui a tutti è stato chiesto da che parte stare e dove tutti hanno risposto a tale quesito in una maniera o nell’altra: a partire da Anonymous il misterioso collettivo di hacker internazionali che dichiarando guerra aperta a Putin, oltre a pubblicare i piani dell’invasione dell’Ucraina, ha inviato tre milioni di SMS ad utenze telefoniche russe con informazioni reali rispetto a quello che sta accadendo. Una campagna digitale che sta mietendo le sue vittime e cogliendo i suoi frutti, al punto che alle foto dei monumenti e dei ristoranti russi, la gente sostituisce le foto non censurate della violenza, degli omicidi, degli assassini di bambini, donne, vecchi, anziani, dei soldati russi prigionieri.
Come risponde la Russia? Il più grande paese del mondo vive in una rete dominata dal Grande Fratello della propaganda putiniana. Anche qui una cortina di ferro fatta di fibra e di muri di bit pressoché invalicabili che precipiterà i russi in una nuova forma di autarchia 2.0 e di isolazionismo. Del resto, se questo testo che state leggendo fosse pubblicato in Russia, il suo autore si beccherebbe quindici anni di carcere nelle prigioni ex sovietiche per disinformazione.
Al di là della guerriglia digitale, al di là dell’impegno solidale di tutti o parte di noi, del dibattito politico ingenerato, delle forme di nevrosi e di ossessione sviluppate, forse, perfino giustamente nell’osservare in tutto il suo orrore la guerra e le sue vittime, quello che più colpisce della lettura mediatica di quanto sta accadendo è che, per la prima volta, una guerra ci accompagna sempre e, forse, questa è paradossalmente una buona cosa.
Il conflitto in Vietnam divenne impopolare al punto di suscitare proteste violente in tutti gli Stati Uniti quando la televisione americana e – in particolare – il grande giornalista Walter Cronkite iniziarono a mostrare gli aerei militari che scaricavano bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. La guerra, in quel momento, aveva perso la sua gloriosa patina retorica ed era diventata, improvvisamente, “reale e dolorosa” anche per chi era rimasto a casa e aveva appoggiato il conflitto, accettandone le sue improbabili logiche.
La differenza tra mezzo secolo ed oggi sta in un paio di elementi non di poco conto: da un lato l’aggiornamento dell’orrore ad oggi, dall’altro la socializzazione delle immagini cui è impossibile sfuggire. Quando guardiamo, infatti, le clip video, le foto, gli appelli provenienti da Kiev, da Odessa o Mariupol ecco che vediamo gente come noi, vestita come noi, come i nostri figli e che scappano con quegli stessi trolley che tante volte abbiamo caricato sulle nostre auto o imbarcato sugli aerei, partendo per le vacanze.
Ed è così che quelle macchie rosa con le ruote, i peluche colorati, le donne bellissime e curate nel loro severo dolore, i padri di famiglia provati e smarriti, i bambini in fuga diventano i protagonisti di questo gigantesco e pietoso affresco digitale 2.0 che noi chiamiamo guerra e che altrove la propaganda del Cremlino definisce come un’operazione di polizia…
Chi, per primo, ha capito che l’unica via di salvezza per il suo paese era quella di coinvolgere tutta l’opinione pubblica mondiale è stato Volodymyr Zelensky, il presidente nato uomo di spettacolo che ha saputo socializzare immediatamente il conflitto e portarlo nelle nostre case attraverso Twitter, Instagram e tutti quei Social Media costituiscono il mosaico del nostro immaginario quotidiano. Chi si è fatto beffa di Zelensky, definendolo “un comico” impreparato, dimenticava che – spesso – nella storia, uomini dell’entertainment hanno saputo giocare importanti ruoli di natura politica.
Su tutti, ovviamente, per ruolo, ma anche per situazioni affrontate viene alla mente il nome di Ronald Reagan, l’attore ex governatore della California diventato per due volte di seguito Presidente degli Stati Uniti e, verosimilmente, il grande vincitore della Guerra Fredda. Un uomo che seppe usare i media in maniera innovativa proprio grazie alla sua preparazione hollywoodiana, così come Zelensky, nel suo piccolo, ha saputo avocare a sé le simpatie della maggioranza delle persone, facendo di Putin un mostro e un nuovo Hitler 2.0 invitando non solo il suo paese, ma il mondo intero ad una nuova resistenza.
Ed è così che tutti gli Ucraini coinvolti ad un certo livello nella guerra, politici, giornalisti, blogger scrivendo in inglese e non in caratteri cirillici, hanno raccontato la loro storia al mondo, aprendo le loro case e mostrando a tutti noi che cosa significa trovarsi sotto i bombardamenti e – improvvisamente – diventare bersagli.
I Social Media, i video di quotidianità violata, ci hanno permesso di sederci vicino a loro, di entrare virtualmente in un mondo reale che a differenza del perfino più efferato videogioco, purtroppo, non si può spegnere. Rispetto a quanto successo in passato e con un impatto più forte dell’evacuazione dell’Afghanistan, il mondo si è fermato ad ascoltare e a guardare: certo le reazioni non sono state unanime, ma – per la prima volta – i governi hanno sentito più che mai la pressione dell’opinione pubblica. Come poteva la ragione di Stato di nazioni come Svizzera e Germania confrontarsi con l’impatto emotivo di un Presidente eroe che in maglietta militare chiede aiuto e protezione per i propri figli, le donne, gli uomini di un paese aggredito?
I Social Media hanno giocato un ruolo in questo conflitto senza precedenti: se avessimo visto queste immagini al telegiornale della sera, come succedeva una volta, ci saremmo indignati, ma non avremmo sofferto come ci capita oggi quando ci svegliamo di soprassalto anche di notte per vedere se la città di Kiev sia caduta o meno e il Presidente che ha parlato a tutti noi sia ancora in vita.
La guerra è nelle nostre case, nelle nostre menti, dappertutto nel nostro orizzonte digitale: certo per qualcuno di più e qualcun altro di meno, ma il coinvolgimento dell’immaginario collettivo è fuori di dubbio così come il fatto che il racconto mediatico e perfino quello cinematografico della guerra cambieranno per sempre in quanto altrimenti artificiali e artificiosi. È stato creato “un punto di vista nuovo” ovvero quello degli ucraini a fronte di quello sterile e ufficiale dell’esercito russo che – a differenza dei suoi oppositori – non ha potuto condividere la propria esperienza in Ucraina.
Una volta, durante la guerra di Spagna, furono i giornali e gli appelli politici a convocare le brigate internazionali a difesa della Repubblica George Orwell nel suo commovente Omaggio alla Catalogna ricorda quei momenti che, in parte, sono oggi richiamati alla mente dalle parole di quei ex veterani e volontari che hanno raggiunto la legione internazionale in Ucraina per fare la loro parte. Scorrendo le loro motivazioni, i loro post di saluti ad amici e parenti, prima della partenza scopriamo che a motivarli sono stati video e foto postati dai cittadini ucraini, nonché ovviamente l’encomiabile lavoro dei giornalisti coraggiosi rimasti sul campo ad informare il mondo.
Ebbene, una cosa è certa: gli hacker manipolatori, i censori, i politici paludati questa guerra l’hanno comunque già persa indipendentemente da quello che sarà l’esito finale del conflitto. Oggi una ragazzina con uno smartphone può toccare il cuore del mondo in maniera libera e diretta. E questa, almeno questa, è una cosa buona.