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Ryan Gosling e Margot Robbie in Barbie © 2023 Warner Bros. Entertainment Inc.
La scorsa estate il Guardian con un pezzo di Manuela Lazic ha lanciato la “sfida finale” a quella che viene definita come la “svalutazione” dell’esperienza cinematografica da parte degli influencer. Un articolo che si è scagliato contro lo spazio e l’attenzione offerti dagli Studios agli Influencer a discapito di critici e giornalisti professionisti. Un fenomeno che sin dal suo inizio anche in Italia, proprio su queste colonne, abbiamo sempre censurato per motivi di opportunità e gusto, ma anche perché nessuno ha mai saputo tradurre numericamente e in dati (almeno a nostra conoscenza) in maniera convincente la partecipazione ad una proiezione di personaggi insoliti e che sembrano avere poco a che fare con l’anteprima di un film destinata a quello che dovrebbe essere un pubblico di professionisti.
Per non sembrare come il cavallo bronzeo di Viale Mazzini che nitrisce morente dinanzi all’avvento della televisione, ecco che cerchiamo di capire meglio come questa tendenza di sostituzione “più inetta che etnica” dei professionisti con gli influencer, oggi, oltre ad avere assunto una forma “globale” è diventata un malcostume di proporzioni tali da mettere definitivamente a rischio la critica cinematografica e la sua sostenibilità sul piano economico e di racconto, nonché la sua funzione sociale.
“Il passaggio da scrittori esperti a scrittori semplicemente in cerca di biglietti gratuiti svaluta il cinema e l’esperienza del pubblico”, scrive la giornalista che ricorda come le impressioni degli influencer sul film Barbie potessero essere condivise immediatamente, mentre le recensioni (positive o negative che fossero) dovessero rispettare quell’embargo che gli Studios hanno spesso fatto firmare agli addetti ai lavori per evitare che un film venga criticato con largo anticipo. Peraltro, chi scrive, essendo arrivato in ritardo alla proiezione del primo Twilight, ha violato l’embargo internazionale (inconsapevolmente) perché non aveva trovato nulla da firmare sul banchetto all’entrata e non era stato informato della necessità di doverlo fare all’uscita del film. La recensione, però, era significativamente positiva e questo gli ha evitato di essere vampirizzato in separata sede.
Manuela Lazic, invece, non solo non l’ha presa bene, ma ha scritto un articolo durissimo che ha scatenato una onda lunga che ancora non si è spenta: “Ci siamo sentiti censurati. Se non permettono le nostre reazioni negative, perché dovrebbero accogliere le nostre positive?”, si chiede Lazic che così continua: “Le reazioni positive sui social media avrebbero dovuto convincere i potenziali spettatori più dubbiosi ad andare al cinema nel fine settimana di apertura, i giorni più cruciali per il successo al botteghino di un film. Il fatto che il pubblico di questa anteprima fosse composto principalmente da influencer è stata un'altra palese strategia di marketing, che non sarebbe stata così offensiva se non fosse stato per il fatto che molti critici cinematografici non avevano potuto vedere il film prima della sua uscita.
Il fenomeno si è verificato anche in altre città. Pochi giorni prima dell’uscita del film, i critici parigini sono rimasti sbalorditi nel vedere alcuni colleghi condividere entusiastiche interpretazioni del film su Twitter, dopo che alla maggior parte di loro era stato detto che non ci sarebbero state proiezioni anticipate per la stampa. Inoltre, quelle che erano state presentate come interviste esclusive con il cast si sono rivelate pre-registrate e pre-approvate dallo studio. Prima della sua uscita, il film doveva essere visto solo attraverso occhiali colorati di rosa”. Parole severe che acquistano un significato ancora più importante e problematico quando si pensa all’incasso globale di Barbie diventato uno dei più alti della storia del cinema con un dibattito social culturale raro di questi tempi per un film.
In questo senso la newsletter Celluloid Junkie scrive: “Le frustrazioni di Lazic riguardo al modo in cui gli Studios cercano di ‘controllare la narrazione’ garantendo l'accesso a proiezioni anticipate, interviste ai talent, materiale pubblicitario, ecc. prima dell'uscita sono esatte. In un mondo in cui il numero di clic determina reddito, importanza e pertinenza, può essere esasperante vedere uno studio favorire l'ultima sensazione di TikTok solo per tornare da te una settimana dopo, quando hanno un film di basso profilo e hanno bisogno di “copertura”. Detto questo, l'industria cinematografica non è altro che un'azienda, e gli studios hanno il diritto di gestire la pubblicità dei film in uscita nello stesso modo in cui farebbe qualsiasi produttore prima che un prodotto sia disponibile al pubblico. Apple, ad esempio, è nota per favorire alcuni media e giornalisti rispetto ad altri, consentendo loro di recensire gli ultimi iPhone il giorno del rilascio, invece che una settimana dopo. Potrebbe far piacere a Lazic ricordare che, nell’era moderna, la maggior parte degli sforzi di marketing astuti alla fine servono ad aumentare il profilo di coloro che hanno opinioni indipendenti e istruite, della cui guida ci si può fidare”.
Il critico Vince Mancini su Substack insiste: “Sono costretto a notare quanto il problema sia molto più profondo di quanto descritto da Lazic. Critici contro influencer è un titolo incisivo, ma è molto al di sopra della radice di un problema di cui se non altro lei sottovaluta selvaggiamente la profondità. Se tutta la discussione sui meriti di un film prima dell’uscita è lasciata agli influencer, la cui ambizione principale è ricevere merce gratuita parlando bene dei prodotti dello Studio, come possiamo aspettarci che sarà il panorama cinematografico? Dove avrà luogo una conversazione coinvolgente, stimolante e, se non del tutto imparziale, almeno equilibrata, sul cinema, e come potrà il pubblico pensare in modo critico a ciò che gli viene proposto?”. Insomma, una situazione complicata con la “mercificazione” del “prodotto cinematografico” protetto a tal punto da evitare che ci siano equivoci di sorta nella sua fruizione scatenando a sua difesa masse di influencer manipolabili in virtù dei regali e, forse, anche dei soldi.
Quindi questo nuovo lavoro digitale è sempre un “male”? Massimo Gramellini sul Corriere della Sera, recentemente, a proposito dell’aumento delle donazioni di sangue grazie all’appello del cantante e influencer Fedez, spiega a chi non si capacita che una richiesta del genere sortisca un effetto tanto imponente: “Mi spiace deluderli, ma applicano categorie di giudizio che si sono esaurite il giorno in cui è stato inventato il telefono con telecamera incorporata. In quel momento il mondo è cambiato per sempre”.
Osserva il giornalista e commentatore: “Oggi chi ha meno di cinquant’anni trascorre buona parte del suo tempo libero a scorrere lo smartphone per estrarne frammenti visivi e frasi abbastanza brevi da stare in una sola schermata. Non è un’opinione, ma un fatto compiuto e irrevocabile. Adesso è quello il campo da gioco principale, come in passato furono il teatro e poi il romanzo, il cinema, la televisione. Ogni gioco ha le sue regole e nel nuovo conta la testimonianza personale, l’Io che diventa Tutti. Fedez sa usare il linguaggio dell’Io come pochi altri e se quindici milioni di persone continuano a seguirlo da anni sui social significa che non è un bluff né una moda. Può piacere o non piacere, ma tra un Nobel per la medicina che afferma in un convegno ‘donare il sangue è importante’ o ‘la depressione è il male del secolo’, e Fedez che racconta di aver rischiato di morire dissanguato e di soffrire di depressione, il secondo arriva prima e meglio. Prima perché finisce direttamente sul nostro telefono. E meglio perché viaggia sull’onda dell’emozione”. Insomma, da quanto leggiamo la critica cinematografica è destinata all’estinzione o ad entrare in una riserva indiana dai paletti alti e insuperabili.
E, in fondo, al pubblico, cosa dovrebbe importare se a parlargli in anteprima un film sia un critico professionista o un influencer il cui merito è mangiare 80 panini al giorno filmandosi dall’alba al tramonto? La risposta è sempre di Manuela Lazic che cita il regista e prima ancora critico Paul Schrader: “C’era un tempo in cui la critica fioriva in maniera rilevante, perché il pubblico voleva film migliori”. Come a dire: senza la critica di livello il cinema potrebbe peggiorare significativamente e assomigliare soltanto ad un prodotto come un altro.